Ho cominciato a sentire la mancanza quando ancora non l’avevo lasciata. Questa è stata di sicuro la sensazione più forte dei giorni di safari. Insieme all’emozione di scorgere un leone camminare lento lungo la nostra stessa strada sul far della sera o fermare la propria auto perché un metro più avanti c’è un attraversamento di zebre e subito dopo di elefanti.
Mi sono tornate in mente le parole di Ernest Hemingway, tutta quella letteratura che parla di mal d’Africa come di una ferita intensa che ti porti dentro e ti spinge a tornare, ancora e ancora. Io lo sapevo del continente, dell’Africa, ignoravo però la magia del safari. 

La mia unica esperienza era stata anni fa, una domenica pomeriggio, sottratta ad un viaggio di lavoro, a Nairobi.
Stipata su un pulmino, insieme a un’orda di turisti, avevo potuto vedere giraffe, credo un leone, zebre e scimmie formato “cittadino”. Giusto per dire li ho visto pure io:-). Diciamo che all’interno di un viaggio molto intenso e per nulla turistico si era trattata di una parentesi che mi aveva fatto sorridere ma senza lasciarmi nulla di più.
Niente a che vedere con l’esperienza sudafricana. 
Abbiamo scelto due parchi, uno, il Pilansberg, a poco più di un centinaio di chilometri da Johannesburg, l’altro, l’Addo Elephant Park, nell’Estern Cape, alla fine della Garden Route: entrambi visitabili con bambini visto che sono esenti dal rischio malaria (che invece, ad esempio, c’è al Parco Kruger, il più grande e famoso del Sudafrica).
Non sono quindi in grado di fare paragoni con parchi come il Kruger o riserve come il Masai Mara o il Serengeti, certo è che già questi due mi hanno fatto letteralmente innamorare del genere:-). E Alice con me…
 
Il nostro primo approccio è stato del tutto “improvvisato”, nel senso che con la nostra auto, qualche ora dopo essere atterrati in Sudafrica, ci siamo trovati a percorrere i tracciati nel Pilansberg, muniti di cartina e binocolo. All’inizio è naturale essere presi dall’entusiasmo da avvistamento, ve lo assicuro, soprattutto se ti ritrovi ogni cento metri a dare la precedenza a soggetti che non incontri tutti i giorni.
Zebre.
 
Gnu, impala, kudu e Pumba.
 
Giraffe.
 
Ancora elefanti.
Gnu.
E struzzi, di solito posizionati davanti ad un’auto costretta a pazientare e fermarsi.
E c’è l’eccitazione da “gamedrive” (come qui chiamano i safari), ossia ci si ferma, si scruta tra il bush e si aspetta. Qualcosa vedi.
 
E’ impossibile non sentirsi un po’ bambini, come se all’improvviso tutte quelle immagini e figure che hai sempre visto fra le pagine di un libro o “reali virtuali” nei film si fossero materializzate davanti ai tui occhi. E beh si sono materializzate. Se poi ti assiste la fortuna, può capitare che in ritardo sull’uscita dal parco condividi la strada con leone e leonessa che ti ignorano come nemmeno ci fossi. Oppure di vedere una piccola "volpe" all’alba.
Noi abbiamo passato i primi due giorni, soprattutto Alice&io in preda a un’incontenibile euforia. Tra l’altro nel Pilansberg esistono “nascondigli” dove è possibile lasciare l’auto ed entrare in piattaforme di legno recintate: di solito danno su stagni o pozze di acqua, dove aspettare con pazienza di scorgere gli animali, indovinare le forma delle ninfee al tramonto o osservare gli uccelli. 
 
C’è chi si ferma lì anche a fare dei picnic, importante è il silenzio (e infatti noi ci siamo concessi un rapido passaggio). 
Il “safari” individuale è perfetto come prima esperienza, soprattutto se hai un pupo con te: sei completamente libero di scegliere i tuoi tempi, fermarti e osservare, esprimere a volume elevato (in auto) la soddisfazione da avvistamento e nel mio caso, fare quelle due o trecento foto a uscita:-).
Sperimentare il safari con una guida locale ti offre però l’opportunità di superare il semplice entusiasmo e capire qualcosa in più rispetto a mettere una crocetta su ognuno dei “big five” (ossia elefante, rinoceronte, bufalo, leone e leopardo). 
 
E’ quasi banale a dirsi ma nell’assistere al “vivere” nel bush, nei parchi è impossibile non avvertire intensamente come ogni piccola parte sia strettamente collegata all’altra. E’ una sensazione che cresce a mano a mano che ci passi del tempo, quando cominci a esserne spettatore fin dall’alba.
Una delle nostre guide ci aveva detto che l’alzarsi del sole nel bush è uno spettacolo incredibile, pensavo esagerasse, soprattutto considerato che per farlo la sveglia suona prima delle cinque e devi convincere una pupa a seguirti:-). Ho capito che aveva ragione appena fuori. La bruma ti avvolge a banchi, mentre il sole tenta di vincere la foschia.
Il silenzio è rotto solo dal verso di qualche animale o dall’avvicinarsi inaspettato di una coppia di linci, alla ricerca di qualche carcassa avanzata dal pasto dei leoni.
Dove si aprono spazzi di verde si accumulano gli animali, visioni che paiono appartenere a mondi quasi irreali per quello che solitamente conosciamo. In quel momento ho avvertito una sorta di nostalgia per qualcosa che c’era ma che già mi mancava.
 
Ci sono le orecchie buffe e gli occhi dolci dei kudu o degli impala che compaiono e scompaiono tra gli alberi.
Le code in piedi, ben dritte, di “Pumba” (un facocero): appena la mamma capta un possibile pericolo li vedi allontanarsi veloci, con tutte quelle code alzate come punti esclamativi.
Solo il momento prima ti chiedi come mai non si sia vista nemmeno una giraffa, la strada gira e ce ne sono quattro, cinque che col collo lunghissimo mangiano da un albero.
Intanto la guida ti racconta aspetti incredibili: come posizionarsi per non irritare gli elefanti, l’età di quel cucciolotto appena nato, la gestazione di mesi e mesi degli elefanti, di foglie che passate nelle mani hanno l’effetto di una saponetta, della limitata sopravvivenza del leone se vive in zone con molti rivali, delle zebre, ognuna diversa dall’altra e dell’ippopotamo, capace di uccidere più persone in Africa di ogni altro animale. 
Ho ascoltato incredula della campagna di salvaguardia dei rinocerenti, divenuti negli ultimi anni bersaglio dei bracconieri per il loro corno, venduto a decine di migliaia di euro al chilo a ricchi asiatici che credono di guarire così impotenza e cancro.
Arrivano di solito con gli elicotteri, li avvistano, colpiscono e scappano lasciando centinaia di animali morti ogni anno. La situazione già difficile in Sudafrica, dove grazie alla maggior ricchezza è possibile sviluppare più controlli,  peggiora in altri paesi africani, incapaci di resistere in alcun modo a questi attacchi.
Il risultato? Un animale che si era riusciti a salvare dall’estinzione è di nuovo in pericolo.
 
Poi c’è la cacca dell’elefante e gli uccellini che si accompagnano a giraffe, zebre ed elefanti per mangiare gli insetti che ronzano attorno.
 
Ti può capitare di imbatterti in un intero branco di elefanti, oltre una cinquantina che diligenti, in fila, si muovono verso l’acqua, è quasi una danza, di gioia ed eccitazione, che aumenta a mano a mano che si avvicinano alla pozza. La loro andatura ha una grazia quasi silenziosa che fatica ad accordarsi a tutta prima alla loro mole.
 
Mi ha meravigliato e affascinato rendermi conto di come a poco a poco non siano solo gli animali più nobili ad incantarti ma anche quelli che proprio non “ti aspetti”.  Ad esempio quell’insetto color della pece che ha un nome poco romantico (dung bee, uhm…) per via della mini palletta, fatta di escrimenti, sulla quale rotola e si arrotola cercando di trasportarla. L’elefante passa 18 ore della sua giornata a mangiare e della sua “cacca”, nel bush, non si butta via niente…
In questi momenti è impossibile non avvertire l’equilibrio perfetto che c’è e dovrebbe continuare ad esserci nelle cose: l’alba e il tramonto, l’alternarsi delle piogge, la notte e il giorno, gli animali che trascorrono le ore a difendersi, quelli che cacciano o raccolgono, quelli che ascoltano. Tutto è naturalmente logico. Qualcuno ha scritto o detto che si consuma il rituale della vita e della morte. E’ vero. Sotto un improvviso acquazzone abbiamo indovinato tra l’erba alta le sagome di due leonesse: erano a caccia di una zebra, salvata dalla sua prontezza a correre.
 
Al termine del nostro ultimo safari (con la solita alzataccia all’alba e tè bollente) ci siamo imbattuti in un leone. Era fermo, pareva contemplare il sorgere del sole, in realtà ci ha spiegato Joe, il ranger che ci accompagnava nell’Addo Elephant Park, stava studiando il territorio.
E infatti qualche minuto dopo ha cominciato a muoversi, dall’altro lato della distesa verde si avvicinava un altro leone, inseme ad una leonessa.
Era il segnale: faceva capire al primo che doveva andarsene. In questo gioco di forze noi abbiamo avuto l’opportunità di vedere i leoni passare a qualche centimetrodi distanza dal nostro veicolo.  Il cuore accelera e gli occhi si spalancano increduli a una simile bellezza. E ti meravigli come tutto conviva sullo stesso sfondo di terra rossa: leone, dung bee e cacca di elefante.
 
Voglio vedere gli animali, anche io:-).
Qualche info in più
Il parco Pilansberg: la lonely planet lo definisce un po’ affollato, io adepta della guida ero partita prevenuta, ho dovuto ricredermi
 
Addo National Elephant Park: qui di sicuro è impossibile che non vediate almeno un branco di elefanti (ce ne sono oltre 500), la vegetazione è di un verde incredibile
 
In difesa dei rinoceronti: qui e qui
 
Un lodge childfriendly dove sentirsi speciali e fuori dal mondo (la pupa è stata accolta da un biscotto homemade con tanto di nome “alicioso cioccolatoso”)