Mini tortini frizzanti al latte caldo: e sono 8!

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La festa di compleanno è cominciata il giorno prima, anzi ancora quello prima. Con quei morbidi minitortini al sapore di vaniglia e latte caldo che Alice ha portato orgogliosa a scuola. Li ho preparati io, al pomeriggio, li ha decorati lei, la sera, prima della nanna. 

Poi sabato è arrivato l’invito a “la casa nel bosco” come io ho ribattezzato il piccolo bed and breakfast che ci avrebbe ospitati per la nostra due giorni in Val d’Aosta. La sorpresa aveva inizio… che compleanno sarebbe altrimenti:-)?

 

Contarne 8 e metterci più della metà della seconda mano mi pare incredibile. 8 anni e una bambina che ormai quasi vola. A volte così simile a me da farmi sorridere un po’ spaventata, a volte altro da me da lasciare che cammini e corra e cada da sè. 

Alice è stata il mio primo amore (anzi il secondo a dire il vero:-)). Assoluto, un po’ incosciente, stupito per quanto ancora sapevo poco. I figli: ognuno è diverso, ma il primo ti si abbatte sulla testa, nel corpo, negli odori proprio come un temporale d’estate, imprevedibile nella sua euforia. E’ l’innamoramento che non ti aspetti, ha il profumo di neonato che disperde la fatica e ferma gli attimi di abbandono felice. E’ la tua prima storia d’amore come mamma, genitore ed è naturale che sia unica. Quelle che vengono dopo sono altrettanto preziose, ammantate dalla gioia della consapevolezza, ma diverse.

Alice adora il compleanno. Per lei è un giorno speciale che sia il suo o quello dei fratelli o il nostro (mio ed Lui). Proprio come succede a me. Lo so, e per questo mi piace creare ogni volta qualcosa da ricordare. 

Insieme abbiamo deciso il piccolo dolcetto da portare a scuola. Doveva essere una mini tortina che poteva decorare lei stessa: di glassa di zucchero e frammenti di caramelle frizzante. Fosse stato per lei avrebbe preparato anche l’impasto ma è stato impossibile con la scuola e il resto del pomeriggio di impegni. 

Ho avuto il tempo così di creare una ricetta tutta nuova, ispirandomi alla torta di latte caldo. Una sorta di sponge inglese mobida, che si conserva per giorni. Ho però fatto piccole trasformazioni: la torta si è trasformata in tanti mini tortini da mangiare in un solo boccone, il latte è stato sostituito da latte di riso e l’olio di semi di mais ha preso il posto del burro (caso mai ci fosse stato qualcuno intollerante al lattosio a scuola:-)). Ho aggiunto in qualche tortina un acino di uva fragola (l’ultima che ci è rimasta), in altre semplice scorza di limone.

E il resto della sorprese? La “casa nel bosco” si è rivelato essere un posto raro, abbracciato dai prati e dal profilo dei monti della Valle d’Ayas. La nostra stanza pareva direttamente uscita da uno di quei libri di favole che tanto piacciono alle mie pupe. L’edificio (il posto si chiama La Luge d’Antan a Brusson), un vecchio granaio del ‘700 riportato a nuova vita, nascondeva infiniti oggetti di legno profumato intagliato da mani d’artista locali: noi ce ne siamo innamorati.

 

L’11, il giorno del compleanno, Alice ha soffiato sulla candelina a colazione (ancora grazie a la Luge d’Antan per la specialissima torta!), espresso il suo segretissimo desiderio (come tradizione comanda) e aperto i suoi regali. Libri, libri e … pattini sui quali sfrecciare.

E poi via, verso un’altra sorpresa. Siamo scesi verso Verres, dominata dal castello della contessa  e siamo risaliti a Champdepraz, entrando all’interno della Riserva Naturale del Parco del Mont Avic. I colori, grazie alle foreste di Pino Uncinato punteggiate da larici e faggi, erano quelli dell’autunno. Un giallorossastro dominato sul fondo dalla punta del Mont Avic, solo leggermente spruzzata di neve. 

Qui ci siamo fermati al Centro Visitatori del Parco, sosta ideale per spiegare ai bambini dell’habitat del Parco e scoprire le peculiarità del territorio. 

Abbiamo optato per una passeggiata semplice da poter affrontare con Edo nello zaino e Lea a piedi (o Lea nello zaino ed Edo a piedi, a seconda dei momenti:-)).

Sulla strada ci siamo fermati al Parco Animalier del Mont Avic per poter permettere ai bambini di ammirare da vicino alcuni degli animali presenti nella Riserva naturale. Si tratta di animali giunti da centri di recupero perché hanno subito dei traumi e non possono ritornare nel loro ambiente naturale. Così ci hanno spiegato. Stambecchi, daini, gufi reali, volpi… 

E infine sulla via di casa abbiamo fatto tappa al Forte di Bard, ammirandone però l’esterno e girovagando fra le bancarelle del mercato (dove ho recuperato delle fantastiche pere cotogne, ma questa sarà un’altra storia!).

Per i miei mini tortini ho utilizzato sia dei pirottini sia dei bicchierini di carta colorati (esperimento riuscito perfettamente!)

La ricetta. (per una trentina di mini tortini)

4 uova
200 g di farina 00
40 g di farina di riso

1 bustina di lievito
190 g di zucchero
vaniglia in polvere
180 ml di latte di riso
90 ml di olio di semi di mais
(acini d’uva fragola)

Per la glassa
200 g di zucchero a velo
una decina di caramelle frizzanti (alla soda)
mezzo cucchiaino di succo di limone
zuccheri o codette colorate

Come si fa

Montate le uova a crema, inizialmente da sole, dopo pochi minuti aggiungete lo zucchero e continuate a sbattere fino a quando triplicheranno (ci vorranno una ventina di minuti circa).
Nel frattempo setacciate le farine con il lievito. 

Riscaldate il latte con la vaniglia in polvere senza farlo bollire. Unite al latte l’olio e mescolate.
Versate a poco a poco le farine setacciate alle uova amalgamando per bene. Quindi unite il latte caldo poco alla volta.

Riempite dei pirottini di carta e cuocete in forno caldo a 175° per dieci minuti circa.

Fate raffreddare, intanto preparate la glassa. Mescolate lo zucchero a velo con un cucchiaino di acqua e uno di limone fino ad ottenere un composto denso. Fate cadere la glassa sui tortini, quindi aggiungete delle codette o granelli di zucchero colorati e le caramelle frizzanti sbriciolate.

Girandole di uva fragola

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Assomiglia a una girandola. Vola, e a volte soffia sulle giornate, ammucchiandole e lasciandoti in mano la sensazione che qualcosa ti è sfuggita. Il tempo. E ora settembre, quasi andato e l’autunno con l’aria che sa di marmellata e uva fragola, foglie che scricchiolano e caldarroste.

Settembre ha già quasi svoltato mentre io rincorro le giornate sempre in un equilibrio abbastanza precario. Chissà perché i contorni, al ricordo, sono sempre poco definiti, quasi sfocati. Come se non avessi mai modo di pensarci, sostare e soffermarmi.

Ho cercato l’uva fragola appena rientrati dall’isola. Per me è irrimediabilmente legata all’autunno. Non l’ho trovata. Impossibile. Poi è arrivata una cesta, regalata.

Con una parte dei grappoli la scorsa settimana ho preparato la schiaccia all’uva fragola, deliziosa. Mentre le bambine hanno fatto a modo loro. Alice ha creato dei cestini ripieni di tanti chicchi, Lea dei mini panini con sorpresa dentro (che prima di infornare abbiamo passato in olio e zucchero, fantastici!). E Edo? La sua creazione ha assunto la somiglianza di una faccia impastricciata un po’ a caso.

 

Poi ho trovato una ricetta che mi ha ispirato sull’ultimo numero de La Cucina Italiana. Un pan brioche riempito con sugo d’uva fragola. Ho raccolto la suggestione del sugo e ho cambiato il resto.

Per l’impasto ho fatto a modo mio. Ultimamente sto utilizzando per lo più latte di soia e riso, e quindi quello è finito nel mio impasto. Ho sostituito il burro con olio di semi di mais spremuto a freddo, lo zucchero con il miele al limone. E come farina ho usato una manitoba multicereali, scoperta di recente, che adoro.

Infine invece di un solo pan brioche ho dato forma a tante piccole girandole, ripiene al centro di chicchi di uva, spennellate sui petali di sugo d’uva.

Il risultato? Così delizioso che la sottoscritta si è gustata giusto un paio di petali sopravvissuti al passaggio di Lei e i pupi (e la nonna e miss Cia).

 

Piesse. Fino al 4 di ottobre potete sostenere anche voi la campagna di MSF “Un parto sicuro salva due vite” in supporto del Villaggio delle Donne di Masisi, in Congo. Pensate che grazie al sosteno di MSF nell’ospedale del villaggio si è registrato nel 2014 lo stesso numero di nascite dell’ospedale Fatebenefratelli di Roma.

 

La ricetta.

Ingredienti

500 g di farina Manitoba multicereali

1 bicchiere abbonadante di latte di soia tiepido

3 cucchiai di olio di semi di mais

70 g di miele al limone

1 pizzico di sale

un cucchiaino di semi di anice

1 bustina di lievito di pasta madre secco

500 g di uva fragola

2 cucchiai di zucchero

olio di oliva

Cominciamo dal sugo d’uva. Mettete gli acini di uva (lasciandone una trentina da parte) in una casseruola insieme a un paio di cucchiai di zucchero, coprite e lasciate cuocere per una ventina di minuti. Passate quindi al setaccio ricavando il sugo e conservate.

L’impasto. Mescolate la farina con il lievito, il latte tiepido (usatene poco alla volta fino a quando l’impasto lo richiede), il miele, il pizzico di sale, i semi di anice.

Cominciate a impastare, aggiungete quindi l’olio e lavorate fino a formare una palla, richiudetela sotto per bene e mettetela a lievitare in un luogo tiepido per un paio d’ore.

Riprendete quindi l’impasto e ricavate delle porzioni grandi come un grosso mandarino. Stendete la prima porzione ricavando un cerchio di circa 6 cm di diametro. Posizionate al centro 4-5 acini d’uva, spennellate il resto con il sugo d’uva.

Formate un secondo disco e usatelo per coprire il primo. Con una tazzina delimitate un piccolo cerchio al centro,  e da lì tagliate l’impasto formando dei triangoli larghi circa 2 centimetri. Tagliate quindi ogni triangolo in due parti e arrotolatele fra loro. Così per tutta l’ampiezza.

Infilate infine un bastoncino al centro, spennellate con olio d’oliva e zucchero

procedete con il resto dell’impasto e rimettete a lievitare per una mezz’oretta.

Cuocete in forno a 210° per i primi dieci minuti, quindi abbassate a 190° per altri 10 minuti.

Le girandole sono pronte, buon divertimento!

 

Cous cous alla greca per Ferragosto

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L’ho fatta e rifatta spesso. Ovviamente in molteplici variazioni. Tutte veloci, fresche e con un fantastico mix (almeno per i miei, anzi, nostri gusti) di verdure, frutta, croccante e aromatico.

L’ispirazione iniziale è naturalmente greca, perché al ritorno da un viaggio per me è naturale farsi prendere delle suggestioni vissute. Quindi aperitivi a base di ouzo e mastika, ma anche insalate e spiedini simil souvlaki.

Il caldo poi di questo mese a casa ha contribuito a tenermi lontano, lontano da tutto ciò che implica forno e fornelli. In compenso ho sperimentato innumerevoli insalate e gazpachi (ottimo pomodori, fragole e anguria, ma anche melone e semplice semplice menta e zucchine).

Da una settimana le pupe sono al mare. E questo significa che la cucina si è ridotta ancor di più all’essenziale (sì, beh, ci sono le pappe non più pappe di Edo:-)) e si sono intensificate le uscite, approfittando della trasferte del pupo dalla nonna rimasta. Una libertà di decisioni (di svago:-)) che ha un’ebbrezza tutta estiva. Quasi fosse più vacanza questa delle vacanze vere.

Le insalate, soprattutto nella pausa pranzo quasi solitaria, sono diventate un ospite fisso a tavola.

In Grecia, a Paros, mi sono innamorata di una versione locale con grosse fette di pane secco integrale (che io tornata ho ricreato prima con il pane acquistato lì poi con le freselle calabresi): il pane assorbe olio e succo di pomodoro (quasi fosse un lontano cugino della panzanella o del pane “cunzuto” siciliano) e per me diventa veramente irresistibile nella sua banale semplicità.

La versione di oggi è una di quelle che ho sperimentato con le bambine, perchè si rivela, con l’aggiunta di cous cous, un piatto completo pronto in massimo 15 minuti 15, da accompagnare con succo di sambuco e palline di anguria.

Perfetto anche da portare in riva al mare o per il pic nic sul prato a Ferragosto. O semplicemente da servire in terrazza, a casa (come farò io domani, pioggia permettendo:-)).

Buon Ferragosto, o buone vacanze quelle che state facendo o quelle che farete (noi aspettiamo fine mese per il giro di fine estate sull’isola!).

La ricetta.

Ingredienti (per 4)

4 fette di pane secco (o friselle)

180 g di cous cous

2o0 g di pomodorini

1 grossa fetta di anguria

100 g di olive nere e verdi

1 peperone giallo

1/2 cipolla rossa di Tropea

olio extravergine d’oliva

sale

erbe miste (io sto usando un mix per insalata greca, con origano, aneto, timo, basilico)

100 g di feta

brodo vegetale

Come si fa

Riscaldate il brodo vegetale, nel frattempo sgranate a forchetta il cous cous in una ciotola capiente con un paio di cucchiai di olio extravergine e un cucchiaino di sale. Versate il brodo fino a coprire il cous cous e lasciate riposare per qualche minuto. L’acqua dovrà essere del tutto assorbita, se necessario aggiungetene ancora qualche cucchiaio.

Lavate i pomodorini e tagliateli a spicchi piccoli, conditeli con olio e sale. Ricavate con uno scavino delle palline dalla fetta di anguria.

Tagliate il peperone ben lavato in falde non troppo grosse, affettate sottilmente la cipolla rossa.

Sbriciolate la feta.

Assemblate gli ingredienti, cous cous, verdure e anguria, aggiungete la feta sbricciolata e servite il cous cous su una fetta di pane secco con un filo di olio.

 

 

 

 

 

 

 

 

Galanolefci, blu e bianco: Paros e Antiparos

Il chicchiericcio delle cicale si confonde con il blu, quello del cielo e quello del mare. L’auto si arrampica fra i campi che portano alla spiaggia. Su un lato della strada l’erba è stata ordinatamente raccolta in file apparentemente disodinate di covoni. Dopo l’ultimo si intravedono i morbidi contorni di una delle tante chiesette di cui è punteggiato il paessaggio. Anche quelle bianche e blu. Come le case. Come la bandiera, Galanolefci (in greco), “blu e bianco”, mare e libertà. E’ l’essenza di un paese, quasi scontata nella sua semplicità, facile da afferrare in poche occhiate. Amo questi colori, specialmente d’estate. E’ la Grecia. E noi siamo ad Antiparos, isola dalle dimensioni che ti stanno in testa nel giro di niente.

Campagnola, quieta e appartata. Un unico centro, Antiparos con il suo Kastro di origine veneziana e la spiaggia cittaina a pochi minuti: al porticciolo le taverne, e la via centrale, un’unica strada lastricata di bianco, pochi vicoli ai lati, sulla quale si affacciano i negozi e i colori accesi delle bouganville. 

Ci siamo arrivati dopo un viaggio faticoso: il passaggio a Myconos, il traghetto sbagliato e la fermata d’obbligo a Naxos, esaurita fortunatamente con una merenda a base di macaron e frappè, l’arrivo a Paros e la traghettata di poco più di cieci minuti per Antiparos.

La nostra sbadataggine è stata salvata dalla gentilezza della gente. Il capitano della nave ci ha trovato la coincidenza, un noleggiatore di auto ha telefonato al nostro “noleggiatore di auto” per farci portare la macchina visto il ritardo. E’ la Grecia.

Qui la dimensione del viaggio, i suoi tempi e i rumori sono quelli dei traghetti. Le file serenamente disordinate per la salita mentre altri discendono, l’attesa all’ombra bianca delle pensile di muratura, il rapido partire (e ce ne siamo accorti perché saliti sul traghetto sbagliato è stato impossibile ridiscendere coi nostri tre bambini e bagagli al seguito) e i contorni della prossima isola persi all’orizzonte.
Non amo i traghetti, ad eccezione che in Grecia. Lì per me lo spostarsi assumo tutto un altro fascino, un po’ come quando mi trovo al tabellone partenze in aereoporto.

Ad Antiparos le spiagge si contano su poco più di una mano, noi dormiamo a Soros Beach, una delle più belle, insieme a Livadia e per noi Apadima.
Alla punta estrema la spiaggia di Aghios Georgios, proprio di fronte a Despotiko, un’isoletta brulla dove le capre pascolano accanto agli scavi archeologici.
Ci andiamo nel corso della settimana: gli scavi, ci racconta un giovane archeologo italiano, sono iniziati da qualche anno, sponsorizzati da privati.
Si scava solo d’estate, per pochi mesi, quando le finanze lo permettono. E ci vorrà tempo prima di portarli a termine.
Despotiko era un luogo di culto: c’erano templi dedicato ad Apollo, ma anche abitazioni e sculture. Oggi ci si aggira intorno scrutando i resti e immaginando.

Da Despotiko la piccola imbarcazione ci porta a una grotta vicina per un bagno, al ritorno ci fermiamo alla taverna di Capitan Pipino: si affaccia a bordo mare, con gli immancabili polipi lasciati a seccare al sole.
Ancora una grotta, questa volta saliamo fra le colline, il panorama è senza fiato. Si entra ad ammirare le stalattiti nelle cave utilizzate un tempo come rifugio dagli abitanti dell’isola.
Scendiamo a mare, ci fermiamo ad Apadima. Riparata dal vento, attrezzata, perfetta coi bambini.
Segnatevi l’indirizzo per pranzo ma soprattutto cena. Noi ci torniamo due volte, la cucina del ristorante Nixon di Beach House e del suo chef (e blogger) Marko Rossi è deliziosa. Greca ovviamente ma con influenze esterne (vedi la ceviche, fantastica).
Per noi la migliore dell’isola insieme a quella di Soros Beach e Tageri.
Scegliamo l’immancabile tavolo bordo mare, particolare non da poco hanno il seggiolone. Lo so per la maggioranza conterebbe nulla, ma noi che da giorni non riusciamo a fare un pasto tranquillo perché Edo fermo se non vede la tavola non ci sta è un plus notevole:-).
Da non perdere ad Antiparos il tramonto. E’ un vero e proprio rito che si può consumare comodamente seduti a bere un aperitivo oppure liberi sulla spiaggia alla quale si arriva con una tranquilla passeggiata di meno di un chilometro dal paese.
Ci rispostiamo a Paros, questa volta per rimanerci una settimana. E’ un’isola dalle dimensioni maggiori, così tanti angoli e spiagge da rendere i giorni troppo pochi: lunghe distese di sabbia, mare tuchese e trasparente, come Kolymbithres (le sue rocce mi hanno ricordato la Maddalena!) e Golden Beach (paradiso per i Windsurf e infatti quando ci andiamo siamo pochi, ma veramente pochi al vento:-)) o Santa Maria (fondali bassi e digradanti dolcemente perfetti per i bambini, a pochi chilometri da Noussa, con la sua Chora fra le più belle delle Cicladi), piccole spiaggette solitarie da ricercare lungo la costa, spettacolare quella est, col suo susseguirsi di spiagge, campi e chiesette a vista sul mare fino al paesino di Piso Livadi, affollato di taverne sul porticciolo e la spiaggia di Longares, ombreggiata dalle tamerici.
Ci siamo spinti fino a sud e poi abbiamo risalito la costa che si allunga di fronte ad Antiparos: qui ci è piaciuta Aliki, con la sua atmosfera rilassata e il paesino fatto di poche taverne, alcune proprio sulla spiaggia.
Noi abbiamo dormito ad Ampelas, a qualche chilometro da Noussa, tratto di costa solitario:   un paio di taverne (entrambe pieds dans l’eau con panorama su Naxos, entrambe con una genuina e semplice cucina greca con pesce fresco), una piccola spiaggia attrezzata e le altre assolutamente libere e quasi deserte. E per chi voglia godersi la vista o il cielo stellato c’è una panchina, come se fosse lì da sempre, quasi abbandonata con noncuranza.
Ho adorato l’assoluto silenzio della zona (se si escludono grilli e cicale e beh i nostri pupi:-)), le gentilezza dello staff e la camera dove abbiamo dormito: una vera “room with a view” con vista che si confondeva dal mare al cielo. Segnatevi Stagones Villas.
Siamo stati a Noussa più volte. Il luogo è da cartolina, con la chiesa che si staglia nella parte alta, le taverne a bordo acqua, l’anima marinaresca della zona dove le reti dei pescatori si confondono con i tavolini bianchi e azzurri che affollano il porticciolo e i vicoli bianchi.
 La consapevolezza chesull’isola la vita è migliore soprattutto se ci rilassa in flip flops e si sorseggia un cocktail a base di gin (vedi foto:-)), mentre il mare è sempre lì. al di là delle imposte socchiuse.
Noi ci siamo sempre stati verso il tardo pomeriggio mai di sera e ci siamo concessi un aperitivo quando i locali erano ancora silenziosi.
Le fa da contrappunto, Parikia, il capoluogo dell’isola, dove arrivano i traghetti e si scambiano i viaggi, testimone un mulino. Qui il  è meno bello ma forse più autentico.
Merita una sosta a cena anche il paesino di Lefkes, uno di quei luoghi lontani dalla pazza folla dove tutto scorre come se il tempo fosse lento e delicato.
Siccome siamo di quelli che soffrono il mal di terra, è stato impossibile non concedersi un’uscita per esplorare la zona attorno a Paros. Siamo finiti fino a Koufonissi. Con Alice c’eravamo stati anni fa, me ne ero innamorata: un’isoletta da girare in bici, poche spiagge ma indimenticabili.
Questa vota l’abbiamo vista dal mare. Le oltre dieci ore in barca sono volate nonostante Edo abbia deciso di concedersi giusto un sonnellino di 45 minuti 45:-): abbiamo fatto tappa a Naxos, nella zona sud, sulla costa impervia le uniche presenza erano le capre e una deliziosa chiesetta sul mare, e poi alle grotte di Koufonissi nella baia di Xilobatis, e infine ad Antiparos.
Al ritorno d’obbligo la cena a Piso Livadi, da dove siamo partiti in una delle taverne del porticciolo.
Lungo la strada che da Ampelas ci portava verso la zona sud abbiamo fatto sosta più volte nella panetteria (ma ci trovate gelati e dolci di ogni tipo) migliore di Paros. Xilofournos. All’esterno abbiamo approfittato delle panchine per goderci un Freddocino noi, una spremuta fresca i bambini, accompagnati da gelato, pasticcini e baklava.
Ovviamente la maledizione traghetto accompagna anche la partenza. Non c’è posto sul primo di ritorno e trascorriamo quindi a Parikia un paio d’ore di più. Niente di male: ci sono i negozietti del centro:-).
A Mykonos trascorriamo una sera. L’abbiamo visitata anni fa, questa volta c’è giusto il tempo dell’immancabile approdo alla Piccola Venezia, Little Venice.
Coi suoi locali, lo scorcio dal lato dei mulini, con le onde che schiaffeggiano i vecchi edifici a picco, illuminati dal tramonto di fine giornata.
E la passeggiata fra i vicoli immacolati del centro, affollati di gente. Ceniamo lontani dalla confusione, in un locale, Amades, composto da qualche tavolino sulla strada e pochi all’interno. A fine strada una chiesetta, più in là la folla, i colori, quelli ricorrenti, bianco e blu.
Ricompongo i giorni, il blu e il bianco.  Assoluti e così incantati. E’ la Grecia. E dopotutto “on the island life is better”.

A proposito di polpette e di pollo


Ho sempre amato le polpette. Quando ero bambina per me le polpette erano indissolubilmente legate alla mia nonna (che a volte me le proponeva pure a merenda se capitavo da lei mentre friggeva), cariche di sapore e di tradizioni familiari che si perdevano nelle sue origini romane.
Nelle polpette di nonna ci andavano sempre le patate oltre alla carne, un’abitudine che spesso ho mantenuto anche io per renderle morbide, morbide.

Ho continuato a cucinare le polpette, sono pratiche, comode e perfette per chi come me va veloce e si vuole portare avanti. Ho cominciato a declinarle in tanti modi diversi. Veggie (a base di legumi, perfette con la salsa a base di yogurt greco), vegetariane (con le verdure di stagione e i cereali, ad esempio zucca in inverno e zucchine in estate ma anche melanzane, che adoro), di carne (nonna docet) e di pesce ( spesso le preparo a base di pesce azzurro per proporlo più facilmente ai bambini).

 

Nella categoria carne capita spesso che non le prepari più col macinato di manzo che usava regolarmente nonna ma con quello di pollo o tacchino. Più delicato e digeribile, in una dieta settimanale dove la presenza della carne è comunque ridotta.

Prendete le polpette di oggi. la base è macinato di pollo e tacchino, arricchiti di una patata schiacciata, zucchine grattugiate e impanature una diversa dall’altra che fanno la differenza di gusto ( e si prestano a diventare un "indovina che c’è dentro" a tavola): dal sesamo al papavero nero alla farina di cocco al trito di erbe alla quinoa (per un effetto croccante) e alla curcuma. 

A proposito di pollo, ieri ho scoperto una serie di cose, che in parte non conoscevo, grazie all’evento di lancio della campagna nazionale Sei verità (www.seiverita.it, il mini sito dedicato all’evento) di UnaItalia (Unione Nazionale delle filiere agroalimentari delle carni e delle uova) . Alla tavola rotonda sono intervenuti diversi esperti (dal nutrizionista al pediatra al veterinario fino alle campionesse sportive) per raccontare i dati raccolti secondo il loro campo di interesse medico e scientifico o di vita, (vedi la pallavolista mondiale Piccinini che ha parlato sia come atleta sia come mamma).

Già sapevo che la carne di pollo (ma anche di tacchino) contiene ferro e proteine al pari della carne rossa, è più magra e digeribile e sempre Made in Italy (produciamo infatti più pollo di quello che riusciamo a consumare e lo esportiamo). Sapevo che il pollo non contiene ormoni ed è allevato a terra (particolare invece sempre da verificare per le uova!). Tutte ragioni per cui è stata la carne che ho introdotto come prima in fase di svezzamento.

Non sapevo invece (e voi?) che il pollo non cresce ad antibiotici e che la carne di pollo non va lavata, abitudine in realtà che io non ho se non quando ho il pollo intero e ci preparo il brodo. Anzi bisogna fare attenzione che lavando o comunque manipolando la carne cruda di pollo i microrganismi presenti non entrino in contatto con altri cibi che andremmo a mangiare crudi (esempio le verdure) o utensili di cucina.

 

Interessante l’evento, magnifico il panorama dalla Terrazza della Triennale dove è seguito il pranzo. Milano, in questi ultimi anni, mi stupisce ogni volta per i suoi panorami in costante cambiamento.

 

 

La ricetta.

 

Ingredienti (per tante polpette)

300 g di macinato di pollo

200 g di macinato di tacchino

1 patata bollita 

scorza di limone

timo, menta, basilico

qualche fettina di cipollotto fresco

1 uovo

1 zucchina

farina di cocco

farina di riso

curcuma

semi di papavero

olio extravergine d’oliva
quinoa soffiata

 

Procedimento

Schiacciate la patata in purea e mescolatela con la carne macinata, aggiungi la scorza di limone (circa un cucchiaino scarso), il cipollotto a fettine, l’uovo leggermente sbattutto, un pizzico di sale, un paio di cucchiaini di erbe sminuzzate, la zucchina grattugiata. Forma le polpette e passale nelle diverse impanature. Una parte nella farina di cocco, una parte nella farina di riso mescolata a un cucchiaino abbondante di curcuma, un’altra ancora nei semi di papavero, un’altra ancora in un trito di erbe o di quinoa soffiata.

Appoggiale su carta da forno, bagnale con un filo di olio extravergine di oliva e cuocile in forno a 175° per une ventina di minuti, rigirandole di tanto in tanto.