Tortine segnaposto alle verdure e tacchino

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Ho dieci minuti dieci. Le pupe giocano, il pupo dorme. Il sole sta già tramontando sulla linea dell’orizzonte di fronte alla finestra della cucina: le giornate sono quelle più corte dell’anno. Domani sarà la Vigilia, uno dei giorni dell’anno che amo di più. E’ il piacere dell’attesa, l’aria frizzante dell’inverno, e quel senso di magia che avvolge tutta la casa e i suoi abitanti. La sera, come da tradizione da quando siamo in due, abbiamo la nostra cena: intima, raccolta. Credo sia il momento di tutte le feste che preferisco: chiamatemi matta, ma il giorno di Natale per me ha già il sapore della domenica sera. Coi bambini ho iniziato ad attenderne la mattina con il loro risveglio e le grida di gioia per i doni lasciati da Santa Klaus. Ecco, sì, questo mi piace. Però la Vigilia mi continua a conquistare anno dopo anno, Natale dopo Natale. Trovo che assomigli tanto a quello che dà ogni giorno senso alla nostra vita.

Queste tortine sono nate pensando a un antipasto salato per la tavola di natale che potesse avere l’aspetto delizioso di un dolce, coperto da una farinatura bianca che assomigliasse alla neve.

La base è semplice, quasi rustica con tante verdure mescolate (che potete variare a seconda dei vostri gusti e della disponibilità della dispensa) a pezzetti sottili di tacchino.

La pasta che avvolge il ripieno è una brisé, veramente facile da preparare in casa: farina, acqua ghiacciata e burro.

Le tortine così piccole si possono utilizzare come graziosi segnaposto da sbocconcellare.

Buona Vigilia (e buon Natale)!

Ingredienti (per 6 tortine)

150 g di farina 00
50 g di farina integrale

50 g di farina di riso

90 ml di acqua ghiacciata

sale

120 g di burro

400 g di filetto di tacchino

1 cipollotto

1 spicchio di aglio

200 g di zucca a dadini

1 patata

1 carota

2 topinanbur

timo (o coriandolo per un sapore più esotico)

sale

olio extravergine d’oliva

farina di cocco

Come si fa

Preparate la pasta. Mescolate le farine con il burro a pezzetti e l’acqua ghiacciata, aggiungete un cucchiaino di sale. Lavorate la pasta fino a formare una palla, avvolgetela nella pellicola e lasciate riposare per un’oretta in frigo.

Il ripieno. Fate appassire il cipollotto affettato sottilmente con lo spicchio di aglio e un paio di cucchiai di olio. Unite il tacchino a pezzetti leggermente infarinati e mescolate.

Aggiungete quindi le verdure: la zucca, la patata e i topinanbur a dadini, le carote a tocchetti piccoli. Bagnate con del brodo vegetale (o semplice acqua) e cuocete fino a quando le verdure cominceranno a risultare morbide. Aggiustate di sale, profumate con le foglioline di timo ( o coriandolo).

Riprendete la pasta, stendetela e rivestite dei piccoli stampi da tartellette, lasciando i bordi alti, bucherellate il fondo con una forchettina.
Riempite le tortine con il ripieno, quindi ritagliate un disco del diametro delle piccole tortiere, ritagliate l’interno con una formina che vi piace (alberello, stella etc…) e ricoprite le tortine.

Spennelate con del latte (io di soia) e cuocete in forno a 180° per circa 25 minuti.

Sfornate le tortine e spolveratele con la farina di cocco fine. Servite calde.

 

Quasi un montebianco ai cachi

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Natale, è quasi domani e non me ne sono accorta. Beh, non è proprio così. I riti alla fine sono stati tutti rispettati: quest’anno addirittura un calendario doppio, con bustine disegnate e decorate dalle bimbe per riuscire ad accontentare il bisogno del biscotto quotidiano. Per un totale di circa ottanta biscotti sfornati.

Edo si diverte a decapitarne le teste degli angioletti (si issa sullo sgabello e afferra la testa dei biscotti dalle taschine del nostro calendario della Renna), ma questa è un’altra storia.

Non ho cucinato molto (al di là della sopravvivenza familiare, si intende), in compenso abbiamo creato angeli di paccheri e farfalle (sì, di pasta…), presepi nei vasetti delle conserve e lanterne equipaggiate di neve, ghirlande e cervi. Sì, non mi sono fatta mancare nulla.

Intanto ho lavorato, scritto, festeggiato gli anta di Lui (ehee?) e affidato ad Alice la preparazione di qualche ricetta tutta da sola (o quasi).

Prendiamo questo Montebianco ai cachi, semplice e bello, perfetto anche per le prossime feste. Noi, poi, veri appassionati di cachi (ci piacciono e siamo sempre alla ricerca delle posatine, lo abbiamo fatto e rifatto, dovendo smaltire le cassette di frutta.

La prima volta è stato un colpo di genio per avere un dessert che si potesse preparare in dieci minuti dieci. Ho messo insieme quello che avevo et voilà il montebianco express ai cachi. Alice mi ha aiutato e la volta dopo ha fatto da sola. E’ incredibile cosa i bambini possano fare da soli e, in una famiglia come la nostra (5!), ognuno deve fare la sua parte: ci stiamo lavorando e a poco a poco le cose migliorano, con tanta pazienza e qualche (uhm, tanti) “conto fino a dieci e poi bum”:-).

Bene. La ricetta. Potete utilizzare dei banali vasetti oppure tazzine da caffè o anche bicchieri da Manhattan, fate voi:-).

Per la base noi abbiamo adoperato degli amaretti sbriciolati, ma potretse anche preparare un crumble di farina, zucchero, frutta secca da passare in forno e sbriciolare sul fondo. 

Ingredienti (per 5 vasetti)

3 cachi maturi

una decina di amaretti

vaniglia in polvere (o stecca)

una decina di marron glacè

250 ml di panna

1 cucchiaio di zucchero a velo

2 cucchiai di yogurt naturale

Procedimento

Ricavate la polpa dai cachi, frullatela con un cucchiaino scarso di vaniglia. Sbriciolate gli amaretti e formate il fondo dei vasteti (o tazzine) circa due cm scarsi di altezza.

Versate la polpa frullata di frutta riempiendo i due terzi dei vasetti. Riducete i marron glacé a pezzetti e aggiungeteli sopra la mousse di cachi.

Montate la panna ben fradda con un cucchiaio di zucchero a velo. Amalgamate delicatamente due cucchiai di yogurt naturale senza smontare la panna.

Riempite una sac à poche con la panna e decorate la superficie.

A piacere potete spolverare la panna con cacao amaro o meringhette ben sbriciolate.

 

 

Lisboa, obrigada

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Ha un’essenza deliziosamente decadente che sa di mare, cielo azzurro vivo e luce che si tinge di oro rosato quando si fa sera. Ci sono i luoghi da non perdere, come già ricordava poco meno di cento anni fa il letterato nazionale più conosciuto, Fernando Pessoa, in “Lisboa, Quello che il turista deve vedere”. Quelli però vengono dopo. Lisbona è una città bellissima che si afferra immediatamente lasciandoti senza fiato (che sia il panorama da uno dei sette colli o la discesa impervia del mitico tram 28): è immediata, luminosa, nostalgica e avvolgente. Basta passeggiare e guardare. Oppure allungare la mano dal tram 28 (o il 22) e quasi sfiorare con le dita i palazzi illuminati dai colori e dalle trame degli azulejos.

Arriviamo nel mezzo della settimana, lasciandoci dietro l’autunno e sprofondando in un’inaspettata primavera.
Dormiamo in un vecchio edificio, l’androne buio, le camere all’ultimo piano dopo le scale infinite ampie perché un tempo lo spazio non era una questione di cui preoccuparsi, i balconcini stretti e malandati ma dalla vista meravigliosa.
Più in là, scopro a colazione, appollaiata su uno di quei terrazzini che avevo ammirato col naso all’insù, c’è il Tejo, il Tago. Perché a Lisbona si respira salsedine ma la città è mollemente adagiata su un fiume. Il mare è più in là, le acque si confondono, un rapido passaggio di acqua scura e più torbida a un blu di oceano.
Siamo a ridosso del Barrio Alto, un tempo la zona dei nobili oggi quella dei locali e della vita notturna. Basta però lasciarselo alle spalle per inoltrarsi nel Chiado, dove ci fermiamo a bere una bica de “carioca” (caffè leggero) al Brasilera: all’esterno una statua di Pessoa ricorda fra uno scatto e l’altro dei turisti che qui lo scrittore era un affezionato habitué.

Il Chiado prosegue elegante fra piazze e boulevard nella Baixa: da ammirare piazza Rossio e piazza Figuera. Si cammina lenti sulle salite che il tram macina fra curve impossibili ed edifici a sfioro. Mi piace quel rumore di fili e ferro, ritorna puntuale e racconta storie antiche. Adoro le giornate in cui la meta conta poco, e il viaggio tutto.


A Lisbona, in due, posso permettermi di essere disordinata, negligente e spensierata. E il quartiere di Alfama, dove alla sera si confondono le note degli spettacoli di fado, è perfetto per perdersi fra la conta degli azulejus, le facciate malandate, le finestre aperte al vento e i panni affidati alla giornata di sole.

E’ inevitabile sentirsi avvolti dalla “saudade”: a differenza di altri luoghi qui non occorre spiegare la malinconia, la nostalgia, è come dire c’è il sole o la luna. Indulgere nella nostalgia ha il suo pieno diritto proprio come si potrebbe fare con l’allegria o la gioia. E qui la malinconia non ha toni grigi ma è illuminata a giorno.
Attraversiamo Alfama molto lentamente, dopo una sosta alla Cattedrale della città, mentre fotografo e fotografo, fino ad arrivare al Castello di S. Jorge dai cui bastoni dall’impronta islamica si ammira uno dei panorami più belli della città.

Sorge su una collina, come alcuni dei mirador che punteggiano Lisbona, ai quali si arriva dopo la fatica delle salite o semplicemente innalzandosi con un elevador (quello di Santa Justa sorge nel bel mezzo della città, a ridosso di due palazzi, una fila interminabile di persone come immancabile appendice per buona parte della giornata). 

Ecco, a Lisbona potete scegliere un panorama diverso ogni sera per il vostro tramonto, lasciando che lo sguardo spazi sempre più in là. La sera noi saliamo per un aperitivo a Santa Caterina, è un po’ meno affollato rispetto ad altri posti: ci torneremo per un pranzo al ristorante Pharmacia e una visita all’omonimo museo (Lui era interessato al tema:-)).
La sensazione di essere meravigliosamente e pericolosamente sospesi verso l’infinito è forte anche a Belem, una zona discosta dal centro, la punta da dove partivamo i grandi esploratori del passato, fra tutti Vasco da Gama.
Ci si può arrivare anche con un tour in barca: dà la possibilità di ammirare Lisbona dal mare, che si “erge come un’affascinate visione da sogno” (Pessoa, in Lisboa).
La Torre di Belèm più che un avamposto fortificato di avvistamento militare, un tempo punto di ingresso per i marinai e i galeoni, pare un luogo magicamente proteso verso il mare, come la prua di una nave: l’effetto è molto reale, tanto più se si pensa che fino al terremoto di oltre tre secoli fa, la torre era separata dalla terra ferma, ma stava proprio nel mezzo del fiume. L’esterno, caratterizzato dalle preziose cupole moresche e le logge veneziane, è sospeso fra il cielo e il quasi mare sottostante.
Se la Torre di Belèm era il saluto di partenza e arrivo per i marinai, il Monastero di S. Geronimo era il luogo dove imbrigliare le paure e vestirsi di coraggio prima di affrontare l’infinito. Fu costruito proprio per onorare i grandi esploratori e la scoperta della via delle Indie,  sopra tutti Vasco da Gama e Luis de Camoes (ricordato ancor di più per i suoi versi e sonetti che lo fanno il Dante o lo Shakespeare portoghese).
Ci si aggira in silenziosa meraviglia fra le decorazioni del chiostro, dove un tempo si raccoglievano in preghiera prima della partenza per le Indie i navigatori sognatori: la Terra, ciò che ancora non si conosceva sulle mappe costituiva quello che per noi oggi è l’universo.
A Belèm abbiamo scoperto una piccola enoteca (Enoteca de Belèm) dove ho mangiato una delle migliori uova pochè su farinata e polpo croccante degli ultimi anni. Anche qui ovviamente abbiamo assaggiato il bacalhau, credo l’ingrediente con maggiori variazioni nella cucina della città (in centro c’è persino la Casa de Bacalhau dove si mangiano solo polpette di… baccalà).
Lisboa è una città dove la cucina è un piacere in cui indulgere senza troppi pensieri, dove degustare calici di vinho verde, bagnarsi le labbra di ginjinha(il tipico liquore portoghese) o comprare scatolette di pesce in conserva (dallo sgombro al solito bacalhau) impacchettate come fossero souvenir.
E subito dopo, ho obbligato il mio recalcitrante accompagnatore alla sosta alla più famosa pasticceria del Portogallo per assaggiare la famosa Pastel de Nata, creata quasi due secoli fa proprio qui. Ecco, sì, all’esterno c’è una coda continua per l’asporto, però se ci si spinge all’interno, dopo una attesa di pochi minuti ci si può accomodare a un tavolo e assaggiare una Pastel (oltre a chiedere al cameriere di farsi preparare un comodo take away). Che dire? Deliziose, la pastella si sbriciola sotto i denti mentre il ripieno dolce e cremoso viene spolverato da un accenno di cannella.
 Ho adorato attraversare e ammirare Lisbona a piedi (lasciate i tacchi a casa perché qui veramente è impossibile che li possiate utilizzare:-)), però il giro sul Tram 28 è stata un’esperienza da ricordare. A dire il vero lo abbiamo preso solo un paio di volte: di giorno è sempre affollato e accaparrarsi un posto al finestrino è quasi impossibile.
Noi ci siamo saliti di sera, sul tardi, e ci siamo arrampicati attraverso la città. Eravamo in pochi: mi sono ritrovata seduta subito alle spalle del conducente, il finestrino aperto e la mano protesa. In certi momenti il gioco di curve e salite e poi discese pareva una sorta di montagne russe su strada. E il tram sfiora realmente gli edifici, a tratti sembra li accarezzi, mentre la città ti avvolge nella sua melanconia meravigliosamente vitale e luminosa. Obrigada, Lisboa.
Due info utili

Il sito web di Lisbona

http://www.lisbona.info

Il nostro b&b: www.casinhadasflores-lisboa.com

Pharmacia museo e ristorante

Enoteca de Belem: 

Il Cucchiaino, la nuova edizione

cover cucchiaino 930 blog

La mia vita è cambiata, si è trasformata, negli ultimi anni, a ritmo sorprendente. A tornare indietro per guardare avanti mi sembrerebbe talmente incredibile da non crederci. Impossibile. Io? tre libri, tre figli (ecco soprattutto questo?:-)).

A volte capita che i sogni si avverino e crescano. Il Cucchiaino è stato un vero e proprio sogno. Di quelli che avevo da bambina. Un libro, tutto mio. Da sfogliare, accarezzare e conservare negli anni. E’ stato il mio primo amore (se parliamo di libri, ehhee…). E oggi ha una veste nuova. Un’ediizone rinnovata per camminare ancora e ancora. La presento a Roma, sabato 7 alle 11, alla libreria Koob, con una Merenda d’autunno.

Il Cucchiaino. Che c’è di nuovo?

Il libro è rimasto sostanzialemente fedele alle caratteristiche che lo hanno reso utile e coinvolgente per molti (o almeno questo è quello che mi avete scritto, detto e comunicato:-)).

Abbiamo voluto una copertina nuova che ci ha coinvolto come al solito in un’impresa non semplice. Strano? Ehe, no, se si vuole avere come soggetto un pupo di 9 mesi, poco incline a lasciare intatto il piattino e soprattutto la sua faccia. Il risultato? Tanti piattini e tante magliette da cambiare e ricambiare, le esperessioni buffe della sottoscritta per divertire il soggetto e Miss Cia a fotografare come non ci fosse un domani.

E le ricette?

Ne trovate una manciata di nuove: di sicuro saranno utilissime quelle per preparare in casa l’omogenizzato (di carne, pesce o vegetariano), così semplici e collaudate che, se avete un pupo in fa di svezzamento, non potete farne a meno. E poi? Uhm, un pesto all’avocado (della serie baby guacamole), panini di mele da portarsi al parco col pupo e…

Per il resto Il Cucchiaino si conferma un manuale, colorato e divertente, per vivere lo svezzamento del proprio bambino con gioia e condivisione.

Con tante ricette, suddivise per mesi e stagioni, spiegazioni chiare su ingredienti e strumenti di lavoro, consigli pratici per ricavare dalle pappe piatti gustosi per mamma e papà, un calendario dello svezzamento arricchito dall’introduzione di una pediatra, la dott. Alessandra Zenga, che fa il punto sulle tendenze attuali alla luce delle ultime ricerche scientifiche.

Oggi, infatti, non esistono più schemi rigidi e predefiniti per introdurre gli alimenti. Anche le Linee Guida Internazionali e l’OMS ribadiscono che importante è proporre un alimento alla volta, rispettare la stagionalità e la territorialità, badare alle possibili intolleranze di famiglia e abituare il piccolo a un’alimentazione sana e corretta (niente zucchero, sale e latte prima dei 12 mesi, ridotto apporto di proteine animali, circa 3-4 porzioni alla settimana…).

Cucinare è l’opportunità meravigliosa di fare qualcosa per chi amiamo. Una convinzione che si è radicata ulteriormente con l’arrivo dei miei figli: di Alice, per prima, alla quale questo libro è dedicato, e poi di Lea e Edo. I bambini ti permettono di vedere il mondo in maniera diversa, anche in cucina. C’è la fatica, tanta, ma c’è anche la magia, l’incanto di riscoprire le cose.

Spesso lo svezzamento viene vissuto con ansia, quasi apprensione, il timore più diffuso è che il nostro bambino non mangi a sufficienza, come se sul cucchiaino ci fosse tutto il nostro amore e un rifiuto a quello fosse un rifiuto a noi, come genitori. Non è così.

Sono orgogliosa che Il Cucchiaino sia riuscito, con le sue ricette ma soprattutto l’esperienza di una mamma sempre in bilico fra lavoro, famiglia e tempo che non c’è, a raccontare tutto questo.

Oggi poi, ancor più di ieri, il bambino è diventato assoluto protagonista di questo percorso: il momento della “pappa” viene modellato sulle esigenze del singolo, diventa un modo per far conoscere stagioni, ingredienti, sapori e profumi, di costruire le basi del gusto dell’adulto futuro.  E Il Cucchiaino è ancora qui a suggerire una traccia per costruire la vostra storia dentro e fuori la cucina.

L’appuntamento.

Vi aspetto a Roma, alla libreria Koob, dalle 11 di sabato 7 novembre per una “Merenda d’autunno”: i bambini potranno partecipare a un piccolo laboratorio di cucina mentre voi potrete sfogliare la nuova edizione de Il Cucchiaino.

Per info sul dove: www.koob.it, per iscriversi al laboratorio scrivere a: stampa@galluccieditore.it

Piccola postilla. Grazie al mio editore e a tutta la sua squadra per aver supportato questa nuova edizione, dove al mio fianco ha lavorato ancora una volta, col suo occhio leggero e la mano magica, Cecilia Viganò (sue, come al solito, illustrazioni e foto).

Pan dei morti

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E’ incredibile come le cose più scontate se ne stiano buone buone lì ad aspettare di essere scoperte. Alle volte si tratta di guardarle come fosse la prima volta (e in questo i bambini aiutano parecchio), altre di fermarsi e lasciarsi coinvolgere. Alle volte si tratta di scoperte preziose, altre di una semplice ricetta.

I pan dei morti (o ossa dei morti) a casa nostra sono strettamente legati a questi giorni grigi di fine ottobre. Più di tutte le preparazioni per Halloween che di anno in anno sperimentiamo: divertenti, sì, ma sempre diverse perché niente ci obbliga a ripeterle identiche e non passare oltre. Invece le ossa dei morti sono così tipicamente lombarde che non manca anno che non finiscano fra le nostre mani. La cosa più incredibile di tutto ciò è che mai, e poi mai, li ho preparati direttamente io. Li ho sempre acquistati dal nostro panettiere. Fino all’altro giorno, quando trovandomi di fronte al solito vassoio di pan dei morti Alice non mi ha chiesto se potevamo farli a casa. E così è stato. Il risultato? Talmente buoni da rifarli per ben due volte. Così speciali da farmi sorridere al pensiero del loro potere di riportarci per una notte i defunti (perché la tradizione così recita da noi).

Mi è piaciuta la semplicità degli ingredienti perché parla la lingua della mia terra, di quella dove sono nata e vivo. Un po’ come la torta paesana (ribattezzata torta dell’elfo ne La Forchettina), dove gli ingredienti paiono mettorsi in fila prendendoli dalla dispensa senza particolari procedimenti o tecniche di pasticceria. Il sapore finale deriva dalla combinazione con un paio di spezie, capace di farti ritrovare un morso dopo l’altro le stesse sensazioni dell’infanzia.

Abbiamo adottato i riti di Halloween nella sua veste più divertente e chiassosa, eppure lo spirito che c’è dietro non sta poi tanto lontano dalla nostra di tradizione. Non parlo di credo (qui ognuno al suo) quanto di quel senso di mistero, di sottile contagio fra vita e morte, luce ed ombra che ci attraversa continuamente. A volte basta una lanterna per scacciare le paure, oppure un biscotto, morbido, spolverato di bianco.

Ieri ho rifatto i pan dei morti (quelli di sabato erano stati spazzati via dai miei conquilini) e ne ho approfittato per infornare anche delle focaccine che strizzano gli occhietti per Halloween (la ricetta è la solita per la focaccia, con l’aggiunta nella salamoia di tre spicchi di aglio per tenere lontani gli spiriti cattivi:-)).

Di seguito la ricetta dei pan dei morti. Si discosta da quella tradizionale solo per la sostituzione dell’uvetta con frutti rossi disidratati e l’eliminazione di canditi e fichi secchi.

E che la notte degli spiriti sia!

Ingredienti

200 g di amaretti
200 g di savoiardi

100 g di biscotti secchi
100 g di farina 00

120 g di zucchero

4 albumi

100 g scarsi di cacao amaro

70 g di pinoli

100 g di nocciole in granella

120 g di frutti rossi disidratati (o uvetta)

100 ml di vin santo (o altro vino liquoroso)

1 cucchiaino di cannella

1/2 cucchiaino di noce moscata grattugiata
1 bustina di lievito
Come si fa
Mettete i frutti rossi (o l’uvetta) in ammollo nel vin santo. Frantumate i biscotti con un pestello: dovete ottenere un composto ben sbriciolato ma non in polvere come succederebbe con il mixer, io ho preso una grossa busta per surgelati o ho lasciato che le bambine si divertissero a pestare con i loro mattarelli.

Riempite una grossa ciotola con i biscotti sbriciolati, aggiungete la farina, lo zucchero, le spezie, il cacao e il lievito, mescolate tutto, e unite gli albumi leggermente sbattuti, i frutti rossi, il vin santo.

Girate nuovamente, unite anche le nocciole e i pinoli. Lavorate quindi a mano il composto amalgamandolo per bene.

Dovete ottenere una palla ovalizzata, appoggiatela su carta da forno leggermente infarinata e ricavate delle grosse fette di circa un cm e mezzo con un coltello.

Date una forma allungata e affusolata alle fette, aiutatevi con le mani infarinandole se necessario.

Trasferite i biscotti in forno caldo a 180° per 15-20 minuti. I pan dei morti devono risultare morbidi, per nulla croccanti, o almeno a noi piacciono così:-)

Spolverate con tanto zucchero a velo. Si conservano per giorni.