da miralda | 15 Mar 2011 | 24-36 mesi, Dal Mondo, Il Cucchiaino di Mamma e Papà
Per me è naturalmente impossibile tornare da un viaggio e non rifare ricette appena conosciute. Capita sempre, a volte diventa una fissazione (e si mangia greco o tirolese per una settimana), mai però un piatto mi ha appassionato come il Bobotie. Sì, nel senso di interesse storico, culturale, oltre che di gusto stesso, perché capire il Bobotie (credo simbolo della cucina sudafricana come il braai o il biltong) è un po’ come scorrere gli ultimi 300 anni di storia del paese. A qualcuno sembrerà giusto una riedizione speziata della moussaka ellenica, beh sbagliato che in questa sorta di "pie" ci hanno lavorato olandesi, malesi, africani e persino gli inglesi hanno dato qualche suggerimento. Solo a pensarci farei questo piatto un giorno sì e uno no:-)
In Sudafrica l’ho sperimentato la prima volta per caso. Il nome, b-o-b-o-t-i-e, letto in menù mi ha immediatamente incuriosito, dopotutto c’è il destino in un nome, no? E a uno così non si può resistere:-).
Mi è arrivato una sorta di "pie" dolcemente speziato senza però sfoglia o altro, ma solo una crosticina frittatosa sopra. L’ho aperto e si è aperto un mondo: foglie di limone, curry dolce, coriandolo, peperoncino a pezzetti, uvetta e un sughetto che amalgamava la carne di manzo tritata all’interno. E per chi ama i gusti forti, della chutney per accompagnare.
Da lì in poi è stata una ricerca continua del santo graal, fino ad approdare agli spring rolls (in esterno proprio come gli involtini primavera cinesi) con sorpresa, ossia ripieni di bobotie. Al posto della solita salsina agrodolce "chinese style", chutney (in quel caso era all’albicocca, super!).
Fin qui il piatto. Ma poi c’è la storia, ossia come ha avuto inizio il bobotie.
Oltre 300 anni fa le navi olandesi facevano tappa a Cape Town, di ritorno dall’Asia, prima di tornare in Europa. A poco a poco però cominciarono a fermarsi e costruire. E nel fermarsi e costruire lasciavano parte delle spezie trasportate da Java, poi gli schiavi, malesiani, a cucinare per loro.
Dall’influenza fra i "kerriekerrie" asiatici, la cucina nativa sudafricana e quella dei "bianchi europei" è venuto fuori il piatto simbolo di questo paese.
Per anni, con la dominazione inglese e poi le leggi dell’apartheid, il bobotie è stato cancellato dai menù e cucinato di nascosto, a casa o nelle tavole calde malesiane di Città del Capo.
Oggi, invece è orgogliosamente presente in molti menù e non può mancare nei ristoranti che fanno cucina sudafricana.
E’ come se questo tortino riuscisse a riassumere popoli così diversi, e a rappresentare in maniera unica una nazione multicoloured.
Una dichiarazione di intenti, riuscita, più che una ricetta.
Ok, non è esattamente un piatto da pupi (e infatti lì Alice l’ha proprio ignorato) però è perfetto per il Cucchiaino di mamma&papà e beh, con il bobotie a modo mio (senza peri, peri o come diciamo noi piccante), si può raccontare di una nave che solcava oceani per portare l’"oro speziato"… la mia di pupa, qui a casa, si è convinta all’assaggio:-).
piesse: that’s bobotie visto dal forno, wow!
Ingredienti (per tre)
400 gr di carne tritata di vitello e manzo
una manciata di uvetta
1 cucchiaio di marmellata di albicocche
1 cucchiaino di curry dolce
1 chiodo di garofano
1 pizzico di zenzero in polvere
(eventuale coriandolo e curcuma)
1 spicchio di aglio
1 cipollotto
foglie di limone (o alloro, come ho fatto io)
1 uovo
1 bicchiere di latte
1 fetta di pane bianco secco
1/2 cucchiaino di zucchero
1 cucchiaino scarso di sale
olio d’oliva
fette di limone bio
Procedimento
Bagnate il pane con mezzo bicchiere di latte. In una casseruola fate imbiondire il cipollotto a fette sottili e l’aglio con il curry, lo zenzero, il chiodo di garofano e due o tre foglie di alloro. Aggiungete la carne, mescolate, unite sale, zucchero, marmellata, uvetta. Schiacciate il pane e aggiungete anche questo alla carne. Sbattete l’uovo con due o tre cucchiai di latte (eventualmente potete rendere il tutto più denso con uno o due cucchiai di maizena o semplice farina). Riempite una pirofila da forno con la carne, posizionate ai lati due fettine di limone, coprite con il composto di uovo. Finite con una foglia di alloro sulla superficie e passate in forno a 180° per 30 minuti circa.
da miralda | 11 Mar 2011 | In Viaggio, In Viaggio
Esistono pochi luoghi al mondo che mi danno la sensazione di ritorno. Dove sono nata e dove vivo, perché ci sono le mie radici. L’isola perché un po’ mi assomiglia. E poi l’Africa, nel senso di continente, perché fin dalla prima volta mi ha offerto la possibilità di scoprire qualcosa che non conoscevo ma che mi appartiene. Mi è capitato di viaggiare e ammirare altri paesi, di sentirmi affascinata, di pensare anche di poterci vivere per un breve periodo ma mai ci ho associato la parola ritorno. Come se avessi dimenticato un pezzo con cui confrontarmi e solo nel tornare fosse tutto di nuovo chiaro.
Pensavo di poter condensare il viaggio in Sudafrica in un unico post, beh impossibile. E così questo è solo il primo capitolo, al quale seguiranno altre due puntate.
Rispetto all’Africa che ho conosciuto in passato il Sudafrica si è rivelato diverso, almeno per quanto abbiamo visto. Come se fosse un po’ africano, un po’ europeo: una sfumatura che in taluni casi si accende, in altri si attenua. Credo comunque dipenda dalla regione del Western Cape e Garden Route (la principale che abbiamo attraversato oltre all’Estern Cape e all’area naturalistica vicino a Johannesburg), mentre cambi addentrandosi all’interno, dove sono più numerose le comunità Xhosa, San o Zulu.
Probabilmente ho avvertito una differenza inizialmente forte perché l’ultimo mio viaggio sul continente era stato di lavoro, in regioni kenyote molte povere e poco urbanizzate (se si esclude un passaggio a Nairobi).
Il vantaggio di questa sfumatura sta nel poter viaggiare con molta tranquillità, muovendoti liberamente con una pupa di tre anni:-).
E’ un paese dalle forti emozioni: i paesaggi dai colori forti, avvolti dal "misty" (la bruma che ti ritrovi perenne su Cape Town ma anche alle 5 di mattina nel bush), le strade da percorrere per centinaia di chilometri incrociando un paio di auto, l’oceano che non ha mai pace, fatto giusto per gli squali e i surfisti, e gli animali, non solo quelli dei grandi parchi.
E’ un paese che cammina, lo avverti dalla gente, dai cambiamenti ancora in corso dopo la fine dell’Aparthaid oltre 15 anni fa, da quello che è già stato fatto e da molto che c’è ancora da fare.
Sudafrica I. La Città Madre.
Cape Town è una città dove non c’è molto da visitare nel senso classico del termine, si tratta soprattutto di viverla, sospesi fra mare e montagna: le spiagge, i paesaggi, i profumi, i giardini e la gente.
Per i sudafricani è la "Città Madre", un po’ in qualche modo il sunto di una nazione dove convivono etnie, mondi, luoghi tanti diversi, non sempre del tutto integrati, ma ormai quasi pacificati, dopo anni di lotta.
La salita alla Table Mountain che si staglia sullo sfondo, perennemente avvolta da una tovaglia, una passeggiata al Waterfront, il porto costruito dagli inglesi, diventato oggi affollato di ristoranti, negozi e turisti, l’aperitivo a Signal Hill per ammirare la città ai propri piedi. O spingendosi in centro, si supera il Castello di Buona Speranza per un picnic ai Company’s Gardens, dove trovi facce di ogni tipo e innumerevoli scoiattoli da parco inglese, in un’atmosfera di festa che solo due decenni fa qui sarebbe stata impossibile.
Al Waterfront il bello è sedersi a uno di quei ristorantini appollaiati sui ballatoi e osservare il movimento attorno.
Noi ci siamo fermati giusto un paio di ore ritornando da Robben Island, l’isola che è stata per molto tempo prigione e dove Nelson Mandela ha trascorso 27 anni. Quando lo leggi sui libri e te lo raccontano pare già un fatto sorprendente, andarci e sentirselo narrare da un ex-detenuto lo è ancora di più.
Passi da una cella all’altra, leggi le parole di chi è passato di lì, alcuni sono ancora vivi altri no, osservi il cielo così blu dal campo centrale dove i prigionieri spaccavano pietre e segui tutti quei gabbiani che si alzano e si abbassano al porticciolo.
La nazione "arcobaleno" oggi è un altro mondo, e qui, in quest’isola separata da pochi chilometri di mare si è sviluppata una rivoluzione quando ogni cosa pareva immobile.
Nonostante il posto sia visitato da frotte di turisti, basta allontanarsi lentamente dalla fiumana, lasciare un po’ indietro il gruppo per avvertire la sorpresa del luogo.
Pare incredibile che ci siano state persone, come Mandela, in grado di mantenere per anni inalterati lucidità mentale e ideali tanto da riportarli nella vita quotidiana da uomini ormai liberi senza alcun odio.
E’ una delle forze di questo paese che cammina e che in certi momenti ha addirittura corso. Un aspetto che mi ha piacevolmente sbigottito, quasi che da noi non si fosse più abituati a correre, e nemmeno a procedere a passo d’uomo.
Spingendosi alla periferia della città, lontano dai quartieri eleganti di Campsbay, Waterfront e Seapoint, i sobborghi cedono fino a diventare vere e proprie township, dove le case sono messe insieme con lastre di lamiera colorate. La povertà, ci hanno detto qui, è pressoché la stessa di anni fa, sono migliorati e aumentati i sobborghi, abitati da una classe media che sta crescendo (e colorando).
Per i turisti esistono anche percorsi accompagnati nelle township, probabilmente si può rivelare una occasione per conoscere e capire un piccolo pezzo. Essendo stata in altre condizioni in Africa, essendo entrata come ospite nella casa di gente poverissima, mi è parso impossibile scegliere qui un "tour" di questo tipo. E abbiamo solo visto da fuori.
Verso il Capo.
Città del Capo non sarebbe la stessa se a breve distanza non ci fosse la penisola più a sud dell’emisfero. Il Capo è uno di quei luoghi che solo a fermarti per qualche ora ti danno emozioni forti, estreme, è banale a dirsi ma è impossibile respirare lì e non sentirsi carichi di energia.
La strada per arrivare scorre lungo piccoli paesi adagiati sul mare, con spiagge che dal finestrino paiono sempre le stesse per via di quelle onde alte che schiumano nell’aria. In alcune si intravedono fin da lontano casette di legno multicolor, pensate come grosse cabine.
Io me ne sono innamorata e nel tardo pomeriggio ho preteso di ripassare dalla cittadina di Muizenberg solo per fare una ventina di foto al soggetto…
Abbiamo fatto tappa a Boulder’s beach, famosa per la colonia di pinguini. Beh, per Alice è stato uno spettacolo, bagno coi pinguini compreso:-).
Ho ammirato il loro stare: becco semiaperto, zampe ben piantate nella sabbia, per lo più vicini vicini, quasi non facendo resistenza al vento e a molto altro, parte integrante di tutto questo paesaggio.
Inutile dire che appena si muovono e si avvicinano all’acqua sono "adorabilmente" buffi.
Al Capo, vero e proprio, si entra in una riserva protetta, si possono fare tragitti a piedi, avventurarsi verso spiagge deserte o salire fino al faro.
Per i più pigri c’è pure una funicolare che ti porta su, comunque la salita non è impegnativa, considerate che la pupa ha compiuto l’intero tragitto sulle sue gambe (esclusa l’ultima gradinata in spalla a Mr B.).
E poi là in alto capitano gli incontri più inaspettati.
Un cartello, appena entrati nella riserva, ti mette in guardia dai babbuini e confesso che, leggendo la guida e sentendo il racconti di amici che ci erano stati, mi aspettavo di essere assalita appena scesa dall’auto:-).
In realtà di babbuini ne abbiamo intravisti giusto un paio per strada, mentre su al faro, c’era una marmotta, sola soletta, a godersi il panorama da uno sperone. E questa attitudine delle marmotte di stare a contemplare il mare deve essere un’abitudine perché dopo quella del Capo ne abbiamo incontrate varie in Sudafrica, tutte sempre su una roccia mare sullo sfondo:-).
Non l’avrei mai detto delle marmotte.
Infine il punto del Capo di Buona Speranza, che dire? Il vento soffiava parecchio!
Lungo la Garden Route.
Da Città del Capo ci siamo fermati nella regione dei vini, uhm questo però fa parte di uno dei capitoli successivi, dedicati a mercati, cibo e dintorni.
Dalla Garden Route mi aspettavo qualcosa di più, forse dipende dalla stagione, forse dipende dal resto che abbiamo visto. Dai racconti mi ero immaginata una strada spettacolare che corre a ridosso del mare, in realtà solo per brevi tratti è così, per il resto è una via interna.
Chilometri e chilometri da percorrere spesso con una o due altre macchine all’orizzonte (beh questo è il bello:-)).
NNoi abbiamo fatto tappa a Knysna ad ammirare la laguna e mangiare ostriche (io e Mr B.): è la specialità del posto, da assaggiare in un locale molto alla buona e dall’atmosfera rilassata chiamato Oyster Bar.
E poi per la gioia di Alice ci siamo fermati qualche giorno al mare, a Plettenberg: l’acqua era quasi inavvicinabile, tanto era fredda e movimentata, ma le spiagge lunghe chilometri sono perfette per camminare e come diciamo pupi&io "ciacchettare coi piedi".
Ci sono diverse spiagge, una addirittura si estende fra l’acqua dell’Oceano Indiano e quella del fiume, lo Storms River, che sfocia. Come dire calma piatta e cuore in tempesta:-).
Lo spettacolo è soprattutto nell’oceano coi surfisti che cavalcano onde incredibili, incuranti sia del freddo sia degli squali (beh almeno dai cartelli parrebbe così:-)).
A Plettenberg ci siamo uniti a una escursione in mare per vedere i delfini e le foche. E’ emozionante assistere ai movimenti dei branchi di delfini che si abbassano, saltano e scompaiono in un mare con onde simili.
Anche le foche vivono in grosse colonie e pare, da quello che ci hanno raccontato, che abbiano la meglio persino sugli squali.
A Plettenberg vale anche un giro la Robberg Reserve, si possono prendere vari percorsi, alcuni da vera arrampicata.
C’è chi sceglie di arrivare per un picnic verso sera (i sudafricani amano mangiare all’aria aperta e sono veri fanatici del "brai" o barbeque).
Qualcuno apparecchia come fosse in un gran ristorante: fantastico!
Noi abbiamo scelto una camminata semplice che ci ha portato ad una spiaggia "oceanica": mare in similtempesta, schiuma nell’aria e battigia lunghissima da specchiarsi dentro.
Da Plettenberg ci siamo rimessi in viaggio. Purtroppo avendo pochissimo tempo ci siamo fermati per poche ore alla Foresta Tsitsikamma, arrivando solo fino al famoso ponte sospeso. In realtà si tratta di un parco ricco di sentieri, flora e cascate che varrebbe una visita più estesa. Ma noi avevamo da correre verso l’Addo Elephant Park… to be continued…
Uhm, dimenticavo qualche link utile caso mai voleste cimentarvi in questa parte di viaggio. Tenete presente che la zona è ricca di guesthouse e bed&breakfast, in taluni casi però non accolgono bambini (ebbene sì) quindi è sempre meglio controllare o chiedere (altrimenti finite come noi che arrivati in un ristorante ci hanno mandato via perché non accettavano bimbi).
Comunque ci sono tante strutture childfriendly, e la stessa Cape Town ha tutta una serie di iniziative dedicate ai più piccoli.
Il sito ufficiale del Sudafrica
L’agenzia locale di viaggio a cui in piccola parte ci siamo appoggiati ( e che credo aver fatto impazzire!)
A proposito di Cape Town e dintorni
Cape Town per bambini
Il miglior ristorante di carne di Cape Town (o almeno Alice&io la pensiamo così)
Robben Island (meglio comprare i biglietti del ferry in anticipo perché di solito è tutto esaurito)
Tutto sulla Garden Route
Un ristorante dai sapori sudafricani a Plettenberg
La guesthouse sulla spiaggia dove abbiamo dormito a Plettenberg (ossia addormentarsi col rumore del mare)
da miralda | 08 Mar 2011 | 18-24 mesi, Dal Mondo, Il Cucchiaino di Mamma e Papà, L'ora della merenda, La colazione
Ha riaperto la cucina e pure il blog. Dopo due settimane e più è stato come dare una bella scrollata a polvere e ragnatele, una sensazione strana, considerato che non facevo una lontananza da rete e connessioni così lunga da un bel pezzo . Ammetto di sentirmi ancora sospesa, una parte della testa qui e gli occhi che vedono ancora tutt’altro. E ieri guidare verso Milano, giornata grigia, coda variabile e pensare che soli due giorni prima avevo un giovane leone di fianco (e il nostro, beh, era l’unico veicolo o quasi nel raggio di chilometri) è stato un pochetto "destabilizzante".
Della serie uhm, non so chi sono e dove devo andare:-).
Unico punto fermo di questi giorni? Il carnevale!
A qualcuno sembrerò matta, ma con una pupa all’asilo è tutto un "ci vuole un costume, facciamo una maschera, soffiamo a pieni polmoni sui quattro tubi di stelle filanti e cospargiamoci di coriandoli". Beh, non ero pronta perché pensavo che Carnevale fosse già bello che passato.
Ed è stato così che alla lista dei "to do" di questa settimana (a proposito, non sono ancora venuta a capo delle 2000 foto fatte, ma prometto di raccontare e mostrare quanto prima) si è aggiunta la "missione Carnevale" che detta così fa ridere ma mica è poi uno scherzo. Per di più ho pensato che a questo punto sarebbe simpatico calarmi nella festa pure io e mi sta frullando l’idea di giusto una mascherina e un parruccone per la sottoscritta:-). Ma forse anche no.
Intanto dovendo riaprire la cucina e appunto essendo in tema Carnevale, ho ripensato al "Pancake Day" scoperto l’anno scorso durante i due mesi a Londra. Una sorta di "grande abbuffata della frittella" ma in versione anglosassone: quindi pancakes e tanto sciroppo d’acero.
L’idea è nata negli Stati Uniti (ma va?) dove si corre con la padella in mano (no, non è uno scherzo).
E nella padella che ci sta? Il pancake che va girato almeno tre volte se vuoi avere una chance di vincere. E come mai? Tutta colpa di una donna che si era attardata in cucina all’ora della messa e aveva pensato bene di andarci finendo di preparare i pancakes per strada: un giro qua, una preghiera là e via.
Pure io vado di fretta in questi giorni, però no, ancora non mi sono cimentata alla corsa con padella e frittella (però potrei farlo giusto a Carnevale, dove pure i pazzi sono sdoganati:-)).
Il pancake è una sorta di frittatina dolce, io ci ho aggiunto una mela grattuggiata a julienne e cannella.
Potete anche optare per la cottura in forno per un risultato più leggero adatto ai pupi più piccoli (dai 15 mesi in poi).
Ingredienti (per una decina di pancake)
1 uovo
90 gr di farina 00 (o 50 di farina 00 e 40 di altra farina, esempio integrale o kamut)
1 cucchiaio scarso di zucchero di canna
1 pizzico di lievito per dolci
1/2 bicchiere di latte e due cucchiai di yogurt naturale
1 pizzico di cannella
2/3 spicchi di mela renetta, sbucciata e grattuggiata a julienne
scorzetta di limone bio
un pezzetto di burro
sciroppo d’acero o di agave
(eventuale manciata di uvetta, che fa frittella all’italiana:-))
Procedimento
Stempera la farina con il lievito, lo zucchero e la cannella. Aggiungi l’uovo, il latte e lo yogurt. Mescola e unisci la mela grattuggiata e la scorza di limone. Lascia riposare per venti minuti. Prendi una padella , fai sciogliere un pezzetto di burro e versa un cucchiaio di composto. Appena comincia a rapprendersi e fare bollicine gira dall’altra parte e porta a cottura. Servi caldi con sciroppo d’acero. Puoi anche cuocere in forno: basta versare il composto in una terrina ricoperta da carta da forno e cuocere a 170° per circa venti minuti.
da miralda | 17 Feb 2011 | 18-24 mesi, Il Cucchiaino di Mamma e Papà, L'ora della merenda, La colazione, Winterzauber
Oggi, una giornata di quelle che iniziano tranquille, dove sei a casa e sei sola. Un caffè, il quotidiano tutto tuo, Stan Getz di sottofondo. E quel tortino nero, profumato di arancia. Ok, poi la mattinata è stata un vero inferno, ma questo meglio non raccontarlo:-).
Invece, ecco, il tortino. E’ di quelli nati per strada, un’annotazione appuntata sul taccuino, mesi e mesi lì, dimenticata. Mi sono ricordata della farina di riso Venere qualche settimana fa, quando ho preparato dei biscotti finiti nel libro. Dovendo portare della farina a macinare ho pensato bene di aggiungerci un pacchetto di riso nero. Mi sono ricordata di un articolo letto mesi fa (perdonatemi ma non saprei più dire della fonte…) e ci ho aggiunto l’arancia, quella spremuta e quella avanzata. Della serie qui non si butta niente:-).
Ora sono qui che scrivo, avrei dovuto farlo ore fa, ma come dicevo la mattinata è stataaa parechiooo movimentata. E adesso penso a come le cose cambiano, si evolvono e beh si trasformano (lo so pare la scoperta dell’acqua calda da Eraclito in poi), però cade proprio a caso nostro.
1. La spremuta
Non è una gran ricetta, è giusto un pensiero (di Mr B.) per rendere il succo di arancia più gradito alla pupa. Cosa ha fatto papà? Ci ha aggiunto mezza banana frullata insieme alla spremuta passata diligentemente al colino. Premiato per il suo impegno (e soprattutto perché mi ha messo a disposizione gli avanzi). Voto? Fate voi.
2. Il tortino di Venere con quello che rimane o quasi.
Una mattina ho affidato le mie farine, bianca e nera, a qualcuno che già andava al mulino per macinare. Bene la farina nera è tornata sporca di bianco, mannaggia: non hanno pensato fosse importante mantenere quel tono scuro, scuro.
E io cosa ho fatto? Sfoderato il colore viola (alimentare, appena comprato) l’ho aggiunto nella preparazione (ma voi non fatelo:-)). Poi ho pensato ad un articolo letto sul reciclaggio degli avanzi (o se proprio vogliamo dirla meglio, di tutto ciò che solitamente finisce nella pattumiera) e ho preparato della gelatina con la polpa di arancia che di solito resta nella parte alta dello spremiagrumi.
Il tortino è risultato perfetto con un gusto molto particolare dato dalla farina di riso Venere e la sorpresa dell’arancia nel mezzo. Colorante viola a parte:-)
Naturalmente in mancanza di riso Venere o mulino o di entrambe le cose, potete sostituire con farina di riso tradizionale. E non ostinatevi come la sottoscritta a perseguire l’effetto cromatico, pare comunque si ottenga con la sola farina di riso Venere un colore violetto più che nero:-).
La ricetta è formato 18-24 mesi.
Ingredienti
250 gr di farina di riso Venere
3 uova
90 ml di latte (o metà latte e metà yogurt)
80 gr di zucchero
1/2 bustina di lievito per dolci
50 ml di olio d’oliva delicato o semi
1 pizzico di cannella
(50 gr di mandorle frullate)
Per la gelatina di arancia
la polpa avanzata di quattro arance
1 cucchiaino di agar-agar
1 cucchiaino di zucchero
Procedimento
La gelatina. Mescolare la polpa di arancia con l’agar-agar e lo zucchero, riscaldare lentamente per qualche minuto. Spegnere e lasciar raffreddare. Riempire con il liquido dei cubotti da ghiaccio e passare in freezer per un’oretta circa.
Montare gli albumi a neve, mescolare i tuorli con lo zucchero, fino a ottenere un composto spumoso, aggiungere l’olio e il latte, quindi gli albumi. Stemperare la farina con il lievito e la cannella e unirla gentilmente all’impasto.
Riempire con il composto degli stampini da muffin poco sotto l’orlo. Tuffare nel mezzo un cubotto di arancia e cuocere in forno per 20-30 minuti. Potete decorare con zucchero a granella o una spolverata di cannella. Da servire con spremuta di arancia!
da miralda | 13 Feb 2011 | 24-36 mesi, Happy Birthday!, Il Cucchiaino di Mamma e Papà, Winterzauber
Un fine settimana meraviglioso. O almeno a me è parso così. Assolutamente niente da fare o quasi. Dopo un mese di lavoro continuo anche al dì di festa, può sembrare fantastico anche solo trascorrere un weekend a casa (sì, proprio a casa, considerato che la pupa è di nuovo ammaaaalaaataaa) a bere tè con le amiche di passaggio, costruire un nuovo quartiere di mattoncini colorati proprio di fronte al nostro camino (concessione edilizia particolare), sperimentare un impasto con farina integrale e fiocchi di formaggio per le focaccine, e decidere di preparare due versioni di tartellette con Alice. Una dolce, una salata, giusto pensando al santo di oggi.
Beh, non ha prezzo:-).
Alla fine di questa settimana sarò realmente in vacanza, una vacanza lunga ben due settimane nell’emisfero sud, sud: c’è tempo di dire, raccontare e salutare.
Già questo fine settimana però mi ha messo una salutare aria di "non ho assolutamente voglia di fare nulla" che fatica a convivere con il lunedì:-).
Ammetto che aver chiuso la terza revisione del libro e poter godermi in tranquillità il solito tran tran è una goduria. Lavoro gestibile, pupa quasi gestibile, io la persona più tranquilla e dolce della casa.
E le tartellette son figlie di un paio di giorni spensierati, sì di quelli dove potresti, leggera, leggera, sospirare per il tramonto (prima che qualcuno ti gridi di svegliarti:-)) e pensare "ah, l’amour!".
Ecco, giusto per dire che ne ho approfittato e ho legato al Valentine’s day, che in verità non mi ha mai visto tra i suoi estimatori.
L’idea è nata di sfuggita venerdì quando ho adocchiato delle pere mignon durante l’unica uscita in tre giorni di reclusione. E subito ho pensato a delle tartellette, piccole con bordi da crostata. Ah, la fantasia!
Purtroppo stampini da crostatina qui da noi nemmeno l’ombra e ho ripiegato su tegliette dai bordi poco romantici che non ci hanno guadagnato (le tartellette) con la manodopera di Alice:-).
Nella mia prossima lista to-do ci sta di sicuro "acquisto di stampini da crostatina monodose" (a-d-o-r-a-b-i-l-i!!)
Però, sì un punto felice c’è. La frolla. Ne ho preparate due: una dolce, colorata al cacao e aromatizzata alla vaniglia, e una salata composta con la farina integrale, del burro salato e un cucchiaino di parmigiano. Black&white per la frolla, bianco&nero per il ripieno: super!
Loro, le tartellette non hanno fatto troppe cerimonie ed è nata un’amicizia appena sfornate, mentre con la pupa giocavo a ricomporre i pezzi di frolla.
"Ah, l’amour!".
Il formato è 24 mesi ben compiuti, e le pere potete usare una tipologia mignon da lasciare intera (io ho solo inciso delle fettine nella parte alta) oppure utilizzate pere più grandi ricavando singole fette.
Da servire calde!
Tartellette au chocolat
200 gr di farina 00
80 gr di burro
1 uovo
40 gr di cacao amaro
50 gr di zucchero
1 pizzico di lievito
vaniglia in polvere
2-3 pere
150 ml di latte intero
circa 90 gr di cioccolato fondente (o al latte)
1 cucchiaio di farina (o maizena)
20 gr di burro
1 scorzetta di limone
Procedimento
Mescolate la farina e il cacao con il burro e lo zucchero, fino a ottenere un impasto a grosse briciole. Aggiungete l’uovo, la vaniglia e il pizzico di lievito, continuate ad impastare. Finite di lavorare a mano (se state usando una planetaria), avvolgete in pellicola e lasciate riposare in frigo per un’oretta.
Nel frattempo la crema di cioccolato. In un padellino sciogliete il burro, aggiungete la maizena, quindi il latte a poco a poco e la scorzetta di limone (che poi eliminerete), mettete sul fuoco e appena comincia a scaldarsi unite il cioccolato a pezzetti. Continuate a girare per non far formare grumi. Una volta che si addensa spegnete.
Riprendete la frolla, stendete e rivestite uno stampino infarinato o imburrato da tartellette. Riempite la tartellette con la crema di cioccolate, quindi ponete nel mezzo la pera sbucciata e intagliata a fette sottili. Passate in forno a 175° per venti minuti.
Tartellette au fromage
150 gr di farina 00
50 gr di farina integrale
1 tuorlo
90 gr di burro (eventualmente salato, non aggiungete altro sale)
1 cucchiaino di parmigiano
2-3 pere
crescenza
(eventuale rosmarino)
Mescolate le due farine e il parmigiano con il burro, aggiungete quindi il tuorlo e lavorate fino ottenere una palla. Avvolgete nella pellicola, e posizionate in frigo per un’ora circa. Riprendete l’impasto, stendetelo e rivestite delle tortiere piccole. Riempite di crescenza schiacciata a forchetta, aggiungete eventuali aghi di rosmarino, posizionate al centro la pera. Cuocete in forno a 175° per venti minuti circa.