da miralda | 13 Apr 2011 | 12-18 mesi, Estate, Il Cucchiaino di Mamma e Papà
Ci sono accoppiate che ti stupiscono, della serie ma "come cavolo non ho fatto a pensarci prima". A volte mi capita a casa in momenti di assoluta creatività senza cercare il senso. Altre volte succede fuori, nella cucina di altri. E’ stato così che un paio di settimane fa sono stata a cena fuori, senza la pupa e Mr B., a godermi l”incredibile tranquillità grazie al compleanno di un’amica. Il ristorante (beh non ci sarebbe granché bisogno di dirlo) l’ha trovato la sottoscritta ed è stato scelto dopo veloce scorsa al sito dalla festeggiata (quanto fa internet), visto che il nome a tutta prima non era proprio da cena di compleanno. Ed è stato così che da Profondo Rosso (l’ho detto no che il nome non era tranquillizzante) ho scoperto una delle mie coppie preferite (dell’ultimo mese): piselli e broccoli.
Ecco, se uno me lo diceva mica mi avrebbe ispirato granché. Piselli e broccoli? Ma anche no. Invece sì, proprio in quel mood di ricette so di primavera ma mi ricordo ancora che l’inverno è da poco passato.
Non sapendo di apprezzare il genere tra l’altro non era stata una mia scelta, ma uno di quegli assaggini che ti portano dalla cucina (e che io apprezzo tantisssssimooo, è un po’ una coccola sorpresa, soprattutto se non si rivela una "sola":-)).
Appena affondato il cucchiaio ho pensato che era buono, ma veramente buono, nella banalità dell’accoppiata: basta fare un giro al mercato o al banco "verdufruttifero" in queste settimane per capirlo. Distese di verde broccolo e i primi piselli da sgranare.
Lo chef (di Profondo Rosso) li ha messi insieme, insistendo sul dolce: ha aggiunto uvetta e ha sposato i piselli con anelli di totano (tradizionale che più tradizionale non c’è). Il risultato? L’inaspettato.
Naturale che a casa ho rifatto tutto quasi paro paro, aggiungendo giusto del timo limonato (perché lo a-d-o-r-o ed è a portata continua sul terrazzo, povero lui) ed eliminando gli anelli nella porzione di Alice (non per problemi di introduzione o altro, che ormai gli anni sono tre, ma è una delle poche cose che non ama).
Per il bebè introducete l’accoppiata dai 10-12 mesi (eventualmente passate tutto, potete sostituire i piselli freschi con piselli spezzati.
piesse: nella porzione del pupo, potete unire dei bocconcini di pesce (es. pescatrice o salmone, circa 50 gr.)
Ingredienti (per tre)
1 broccolo verde
200 gr di piselli freschi (o secchi o surgelati)
olio extravergine d’oliva
cipollotto
1 spicchio di aglio
carotina
alloro, (timo limonato)
una manciata di uvetta
(sale e anelli di calamaro per mamma e papà)
1 cucchiaio di maizena
Procedimento
Lavate le cimette di broccolo e la carota, sgranate i piselli. Affettate il cipollotto sottile, tagliate la carota a quadretti piccoli e fate rosolare con olio, l’uvetta, alloro e spicchio di aglio (che poi potete togliere). Aggiungete le cimette di broccoli, rabboccate con acqua tiepida e dopo dieci minuti abbondanti aggiungete i piselli (anche meno se usate quelli surgelati o spezzati). Fate cuocere, addensate con un cucchiaio di maizena. Insaporite con eventuale sale e foglioline di timo.
Nel caso usiate gli anelli di totano, togliete la porzione per il bambino (se non mastica passate tutto), e cuocete gli anelli nella zuppetta per 15 minuti. Se invece volete aggiungere pesce, tagliate il filetto a cubotti e fate cuocere nella zuppa per 10 minuti scarsi.
da miralda | 08 Apr 2011 | 12-18 mesi, Estate, Il Cucchiaino di Mamma e Papà
Ci sono persone con le quali vai istantaneamente d’accordo. Perché ti mettono a tuo agio, trasmettono un sorriso immediato e semplicità che ti riconcilia con la giornata. E’ il caso di Alda. Per anni abbiamo abitato vicino, ma io correvo sempre: c’erano il treno, le giornate milanesi e i weekend pazzerelli. Poi è arrivata Alice, ho cominciato a rallentare, giusto un pochino e guardarmi intorno. Ho conosciuto Alda. Per la pupa è la signora delle uova, quella che ogni domenica arriva puntuale per il suo uovo alla coque. E’ stato naturale cominciare a conoscersi. La cosa fantastica con lei è che passo, sbircio dentro e mi fermo quando posso: un caffè, due chiacchiere o un assaggio da "set fotografico". Abbiamo iniziato a parlare di cucina, fiori e molto altro: io ascolto e lei racconta storie lontane. La ricetta degli gnocchi all’ortica è sua.
L’ortica è arrivata già bella che pulita e cotta a inizio settimana, ben divisa così da poter sperimentare per due volte. Confesso che dagli gnocchi "fatti in casa da me"mi sono sempre tenuta a debita distanza: mi sono cimentata coi ravioli, con la pasta, ma con gli gnocchi no. Perché avevo un vago ricordo di qualcosa di molliccio o eccessivamente "sa di farina" che avevo creato con le mie mani. Li amo, certo, se sono fatti in maniera impeccabile da qualcun altro. Ho ceduto ad Alda.
Perché è impossibile non lasciarsi conquistare e pensare che ecco vorrei pure io alla sua età avere la stessa positività e capacità di guardare alle cose con leggerezza e saggezza nel far fare e lasciar vivere.
Sapete quel genere di persone che mica mettono trappole per liberarsi delle formiche perché tutti hanno diritto a vivere, e alla fine "io lo scaccio con la scopa e loro ritornano", commentano ridendo:-).
Non si tratta comunque della prima ricetta di Alda rifatta pari pari a casa, visto che già una mi aveva tanto affascinato da finire dritta nel libro del Cucchiaino (giusto per dirvi che ne troverete una pure lì).
Alla fine uno degli aspetti che più adoro della cucina è la potenzialità di raccontare storie e trasmettere amore e passione e di solito nelle chiacchiere con Alda c’è tutto questo.
Al di là quindi del fatto che avessi già l’ortica bella e pronta, credo sia stato questo a obbligarmi senza se e senza ma a impastare patate, un uovo, una manciata di ortiche e farina quanto basta.
E in una settimana in cui Alda ha avuto un grande dolore, preparare i suoi gnocchi mi è parso un modo di più per esserle in qualche modo più vicina.
Gli gnocchi? Perfetti per i bebè dai 12 mesi (sono supermorbidi).
piesse: a proposito di cucina, racconti e pasticciamenti, tra le varie di questa settimana, la sottoscritta ha tenuto il suo primo corso di cucina per bebè, poco scientifico (qualcuno aveva dubbi??) e molto pratico (non per nulla è stato battezzato "Facciamo la pappa"). Il dove, come e magari ci partecipo pure io perché sto vicino, vicino a te, li trovate qui🙂
Ingredienti (per tre)
500 gr di patate vecchie a pasta gialla bollite o cotte al vapore (non usate le novelle perché cacciamo acqua e umidità!)
100 gr di ortica bollita
farina quanto basta (cercate di non esagerare perché poi sanno di farina e non di ortica, lol!)
1 uovo
formaggio di capra fresco (anche questo fornito da Ada)
pizzico di sale, olio
Procedimento
Schiacciate le patate cotte con lo schiacciapatate e lasciate raffreddare (consiglio di Ada anche questo!). Una volta fredde impastate con l’ortica frullata o anche questa solo schiacciata a forchetta e un uovo. Cominciate ad aggiungere due o tre cucchiai di farina, fino a quando l’impasto attacca poco poco e si riesce a lavorare. Prendete piccole porzioni e rollate su una forchetta per dare la tipica forma dello gnocco. Infarinate un vassoio e appoggiate gli gnocchi. Lasciate ad asciugare per qualche ora, quindi fate bollire dell’acqua (poco sale coi bebè più piccoli), aggiungete un cucchiaino di olio e tuffate gli gnocchi. Appena vengono a galla, togliete con una spatolina e condite con del formaggio fresco (ricotta o mousse di capra). E se volete giocare col pupo mettete diligentemente in fila indiana e cominciate a far raccogliere boccon boccone.
da miralda | 05 Apr 2011 | 24-36 mesi, Dal Mondo, Estate, Il Cucchiaino di Mamma e Papà
L’idea del nido mi ha sempre affascinato, e tranquillizzato. Quando ero bambina era legata al primo libro di lettura scolastica (sapete no, quelli che durano per un intero anno), si chiamava Cipì e il mio personaggio preferito era indubbiamente Passerì. Si trattava di un racconto estremamente poetico, forse era per questo che a sette anni ne andavo matta.
Poi c’è stata la storia del nido e del pettirosso, e del non vivere invano: erano passati, uhm, direi quasi quindici anni, e ai tempi (ma ancora oggi) ero letteralmente "addicted" di una poetessa americana, Emily Dickinson.
E oggi c’è il nido, quello che sento un po’ mio, dove i cattivi umori, le malinconie sanno smorzarsi con un mezzo sorriso. Ecco questo per me è il nido. Che, col Cucchiaino, si è colorato di primavera e ha preso la forma di spaghetti bianchi, bianchi, lunghi, lunghi.
In questi giorni, dove pare che la mia energia sia stata completamente esaurita dalla primavera (ma allora è vera la storia che si racconta? non ho forze, beh sarà la primavera, scusa fantastica), sono andata a bastian contrario col tempo atmosferico. Cosa, sottolineo, che mi succede molto raramente: se splende il sole è quasi certo che sia, non dico felice, ma quasi.
E invece no. Sono andata lenta, e ho avuto voglia di nido:-).
E’ nata così la ricetta: creare un simil nido che fosse colorato, come il sorriso della primavera.
Il tutto, inutile dire, ha divertito la pupa che, a piene mani, ha sfilato e risfilato, quello che la forchetta aveva pazientemente arrotolato.
La ricetta è in un mood orientale, cominciando dagli spaghetti di riso e dalla salsa di soia (da introdurre solo dopo i 12-18 mesi).
A far da base straccetti di pollo e lattuga all’orientale, si appoggia il nido e ci si mettono baccelli e carotine.
Per i bambini dai 24 mesi e i nostalgici del nido:-).
Ingredienti (per tre)
200 gr circa di filetto di pollo
120 gr di spaghetti di riso
1 cucchiaino di salsa di soia
piselli freschi
1 carota
olio EVO
semi di sesamo
1 cipollotto
Procedimento
Lavate le verdure, cuocete i piselli e la carota per 15 minuti in acqua. Scolate e tagliate la carota a pezzettini.
In una padella stufate il cipollotto a fette sottili con un paio di cucchiai di olio d’oliva, aggiungete il filetto di pollo tagliato a striscioline sottili e passato in poca farina arricchita con semi di sesamo, unite anche la lattuga affettata a striscioline, mescolate, insaporite con un cucchiaino di salsa di soia e un pizzico di sale, spegnete.
Tuffate gli spaghetti di riso in acqua calda (non serve bollirla), leggermenta salata, mescolate e scolate dopo qualche minuto (facendo attenzione che non scuocino o incollino troppo).
Scolate la pasta, condite con un cucchiaino di olio, i piselli e taccole.
Sul piatto disponete il pollo e la lattuga, come fosse la base del vostro nido. Disponete sopra gli spaghetti a nido e servite. In alternativa potete friggere gli spaghetti in olio bollente, passandoli prima in una pastella fatta con un paio di cucchiai di farina di riso, sale e acqua frizzante ghiacciata (per bebè dopo i 24 mesi!).
da miralda | 29 Mar 2011 | In Viaggio
Pensa a un mercato un po’ radical/etno chic, cornice vecchio vittoriana di un biscottificio in disuso, un po’ yuppie ma anche tanto bio e posizionalo all’estremo sud del continente africano. Bene avrai la sensazione strana di essere dalle parti di Londra (vi ricordate il Borough Market?) piuttosto che nella terra dei leoni e della terra rossa. Aggiungici la possibilità, in poco più di mezz’ora di auto, di fermarti per un bicchiere di Merlot in una cantina dall’architettura franco-ugonotta e ti parrà di non aver mai lasciato l’Europa.
Devo dire che è stata in assoluto la prima volta che mi è capitato qualcosa del genere all’interno dei confini africani. Bello o brutto? Non saprei, certo della serie "questo non me l’aspettavo".
Naturale che fra i tre episodi sudafricani questo parla poco di un continente, più dello sforzo di trapiantare la vecchia Europa molto, molto lontano. O forse racconta del Continente visto che la sua storia è anche questa, soprattutto in Sudafrica dove la presenza "bianca" è ancora fortissima, non in termini di numeri quanto di influenza.
Sono nate così le cittadine di Stellenbosh e Franschhoek e tutta la zona delle Winelands: i francesi, ugonotti, hanno approfittato di condizioni climatiche e territoriali favorevoli per dare vita a tutta una serie di coltivazioni di uva che oggi producono degli ottimi vini. E la vista della scritta Merlot, a migliaia di chilometri da casa nostra, beh è veramente strana:-).
Andiamo con ordine. Durante i giorni trascorsi a Cape Town (già lunghissimamente documentati) non poteva mancare per la sottoscritta il passaggio all’Old Biscuit Mill Market, nel quartiere emergente di Woodstock, un esempio di vecchio edificio industriale rilanciato da due imprenditori locali grazie alla creazione di questo mercato.
E’ una tappa obbligata (e oltremodo affollata) per molti abitanti della Mother City il sabato mattina: a metà strada fra un mercato vintage e di design e uno invece di prodotti biologici e gourmet da comprare o sperimentare in loco.
Si trovano formaggi locali (a esempio Goat Cheese o il Cheddar nostrano), baguette e falafel, hamburger e ostriche, biltong e cupcake, smoothies e paella, sushi e olive greche e persino prosciutto di parma (ma prodotto rigorosamente locale). Poi vino, magari abbinato alla pizza.
I lunghi tavoloni al centro dei due padiglioni sono strapieni di gente, bottiglie e chiacchiere, c’è un allegro mix di generazioni, meno di colori.
Ovviamente noi abbiamo sperimentato in loco (uhm, soprattutto la pupa!), oltre a conquistare due o tre cestini di fragole, mirtilli e gooseberries (che non sono altro che alchechengi ma senza foglie) e formaggi per il pic-nic del giorno dopo.
E’ soprattutto però dietro le varie postazioni che si leggono i volti più diversi, compreso qualcuno che indossa cappello e perle.
Mi ha ricordato il Borough Market, anche se là avevo trovato il posto un’immagine concentrata di Londra, qui invece c’è molta distanza fra quello che trovi anche solo appena fuori, nelle strade di Woodstock e ciò che vedi tra le bancarelle. Certo è un tentativo fantastico di promozione del territorio con prodotti bio e soprattutto locali.
Ho vissuto la sua vivace atmosfera come un mercato "europeo" più che sudafricano o africano, ovvio che proprio questa caratteristica lo rende perfetto da girare come turisti, molto più di altri mercati "africani" visti in passato, dove ho osato poche volte mangiare senza troppe attenzioni ma che mi avevano conquistato come viaggiatrice:-).
Dall’Old Biscuit Mill Market alle terre del vino il passaggio è stato veramente breve. La netta sensazione era di essersi persi fra le campagne francesi, con edifici candidi dai profili caratteristici, fermarsi nelle cantine è fantastico perché le degustazioni si tengono sotto pergolati, con giardini, vigneti e colline attorno, musicisti e opere d’arte in certi casi. Un’attenzione tutta francese al contesto con vini discreti (puntualizzazione di Mr B.).
Sono veramente luoghi perfetti per fermarsi e degustare i vini con tanto di pupo, considerato che di solito ci sono giardini, fontana o prato dove scorazzare liberamente.
Chi vuol vivere fino in fondo l’atmosfera bucolica può chiedere di farsi preparare un bel cesto da pic-nic con del bianco ben ghiacciato.
Io devo dire che al terzo giro di cantina ho iniziato a sentirmi perfettamente integrata nel contesto:-).
Franschhoek è tra le fermate più belle, una manciata di case, tutte bianche, per lo più cottage dalle imposte in legno e dal tetto scuro, giardini da campagna anglo-francese, decine di ristoranti "gourmet" fra i quali scegliere, piccole gallerie d’arte e negozi dal sapore provenzale.
Due giorni qui, ti danno l’impressione di essere temporaneamente volato in qualche regione vinicola francese, con tanto di bollicine, nel bel mezzo di un viaggio nel continente africano. Di certo un modo per capire quanto il Sudafrica sia proprio quell’arcobaleno e mosaico di cui in tanti hanno detto.
Amo il vino, mi piacciono i mercati, vorrei…
Old Biscuit Mill Market
Franschhoek
Il cottage dove abbiamo dormito (di un’italiana): atmosfera idilliaca in una vecchia missione dell’800
Cantine da non perdere: La Grande Provence, Moreson (un punto in più per giardino e fontana da parte di Alice!), La Motte e tante altre…
da miralda | 21 Mar 2011 | 12-18 mesi, 18-24 mesi, 24-36 mesi, 6-9 mesi, 9-12 mesi, Estate, Il Cucchiaino di Mamma e Papà
E’ facile innamorarsi della primavera. C’è una sorta di ebbrezza come se veramente tutto fosse pronto a vivere, rinascere, come se tutta questa vita potesse sconfiggere con un soffio la morte accanto. E’ lo stesso che provi guardando un bambino che ti corre intorno, tanto più se è il tuo: non ti senti più come quel pesce nella boccia, confinato, limitato, ma con un piede nel futuro, anche quello che non conoscerai.
Credo sia per questo che per me la primavera è una festa, uno di quei giorni dell’anno che mi appunto nella mente. E anche io, stamattina, avrei gridato come quella bimba che ho sentito fino in casa: "E’ primavera, oggi!". Per festeggiare ho preso i vasi e ci ho fatto il pane.
Dopotutto marzo è il mese dei pazzerelli e io un po’ pazza lo sono sempre stata.
La genesi. Ossia come è nata l’idea.
Bene, di sana pianta per la pupa durante uno dei lunghi tragitti sudafricani alla richiesta "Mamma, mi racconti una storia". (e io ho il vizio stramaledetto di inventare tutto al momento e poi di inguaiarmi in giri stranissimi:-))
C’era un vaso di terracotta che avrebbe tanto voluto essere colorato, la Primavera lo accontentò. Soffiò sui fiori, sparse i semi e il vaso si colorò di violetto, rosso e giallo. E da quel dì fu felice perché anche se arrivava l’inverno lui sapeva che sarebbe rinato, di nuovo il 21 a primavera.
Dal vaso colorato al vaso paninaro il passo è stato brevissimo ( e mi sono appassionata al genere, quindi preparatevi:-))
I vasi di terracotta. Ovvero se un Cucchiaino va al vivaio.
"Buongiorno, cerco dei vasi, di varie misure, preferibilmente mini". Cucchiaino speranzoso.
"Guardi là ne abbiamo di due tipi, perfetti per le semine di primavera".
"Uhm, beh io dovrei infornarli. Sa giusto un po’ di impasto di pane, 200° non ventilato…". Cucchiaino imbarazzato.
"Deve essere il periodo, fa brutti scherzi…". Vivaista senza pietà.
"Lei non sa quindi se posso osare i 200°?". Cucchiaino ostinato.
"Il prossimo, prego". Vivaista liquidatore.
Il consiglio. Segna il posto a tavola.
Questa l’ho pensata una volta che ho ammirato i vasetti panettosi: perché non prepararne porzioni monodose con tanto di nome per i prossimi pic-nic o cene in terrazza o aperitivi o feste o quello che volete voi?
Per la pupa e…
… Mr B e la sottoscritta.
E oggi 21 di primavera mi pare giusto festeggiare, benché di primavera qui attorno pare esserne rimasta ben poca. Eppure la magia di questi panini, il profumo per casa, la gioia di sbocconcellare partendo dalla cima mi hanno trasmesso una gioia che ha il sapore delle cose lontane dell’infanzia.
Buona primavera a tutti!
piesse: nel mio procedimento ho preparato il lievitino alla sera, giusto per non dovermi preoccupare di seguire più lievitazioni il giorno dopo. Naturalmente potete anche decidere di cominciare dal mattino e arrivare all’"infornamento" a metà pomeriggio.
piesse 2.: ho abbinato alla farina manitoba farina al kamut, ecco potete ovviamente sostituire con farina 00.
Formato? Dai 9 ma anche prima per piccoli morsi di assaggio!
Ingredienti
300 gr di farina manitoba
150 gr di farina di kamut
12 gr di lievito di birra fresco (circa mezzo panetto)
1 cucchiaino di zucchero
sale
circa 150-200 ml di acqua (potete in parte sostituirla con un paio di cucchiai di latte, ricordate solo dopo i 12 mesi)
1 cucchiaio di parmigiano e 1 cucchiaino di pecorino
punte di asparagi
fave scottate in acqua
olio
Procedimento
Sciogliete circa 7 gr di lievito di birra in una tazzina di acqua tiepida con un cucchiaino di zucchero, lasciate riposare per qualche minuto, quindi mescolate insieme a 100 gr di farina manitoba e un paio di cucchiai di acqua tiepida. Mettete a lievitare per diverse ore, anche l’intera notte (in luogo fresco). Riprendete la palla lievitata, sciogliete il resto del lievito in acqua tiepida con mezzo cucchiaino di zucchero, fate fermentare per qualche minuto, quindi impastate con il resto della farina. Aggiungete dell’acqua tiepida (dove avrete fatto sciogliere un cucchiaino di sale) e il parmigiano, fate impastare nella planetaria fino a quando l’impasto si compatta intorno al gancio. Rimettete a lievitare in luogo caldo (ad esempio il forno a 35°) per due ore.
Infarinate i vasetti di terracotta, prendete l’impasto lievitato e ricavate delle piccole porzioni tonde. Posizionate l’impasto nei vasi: cercate di appoggiare la palla occupando metà vaso (in lievitazione e cottura occuperà tutto lo spazio a disposizione). Nella parte alta mettete delle fave, al centro un gambo con la punta di asparago (che poi coprirete con carta domopack, in maniera che non bruci). Spennellate con poco olio d’oliva mescolate ad un cucchiaino di latte e lasciate lievitare al calduccio per un’altra oretta.
Riscaldate il forno a 200°, spennellate nuovamente il pane di olio e latte se si è asciugato e fate cuocere per 25-30 minuti circa.
N.B. I vasi sono da riutilizzare, indi per qui pulite con pazienza rigorosamente a mano (no, la lavastoviglie proprio no) e senza detersivo!
da miralda | 19 Mar 2011 | In Viaggio
Ho cominciato a sentire la mancanza quando ancora non l’avevo lasciata. Questa è stata di sicuro la sensazione più forte dei giorni di safari. Insieme all’emozione di scorgere un leone camminare lento lungo la nostra stessa strada sul far della sera o fermare la propria auto perché un metro più avanti c’è un attraversamento di zebre e subito dopo di elefanti.
Mi sono tornate in mente le parole di Ernest Hemingway, tutta quella letteratura che parla di mal d’Africa come di una ferita intensa che ti porti dentro e ti spinge a tornare, ancora e ancora. Io lo sapevo del continente, dell’Africa, ignoravo però la magia del safari.
La mia unica esperienza era stata anni fa, una domenica pomeriggio, sottratta ad un viaggio di lavoro, a Nairobi.
Stipata su un pulmino, insieme a un’orda di turisti, avevo potuto vedere giraffe, credo un leone, zebre e scimmie formato “cittadino”. Giusto per dire li ho visto pure io:-). Diciamo che all’interno di un viaggio molto intenso e per nulla turistico si era trattata di una parentesi che mi aveva fatto sorridere ma senza lasciarmi nulla di più.
Niente a che vedere con l’esperienza sudafricana.
Abbiamo scelto due parchi, uno, il Pilansberg, a poco più di un centinaio di chilometri da Johannesburg, l’altro, l’Addo Elephant Park, nell’Estern Cape, alla fine della Garden Route: entrambi visitabili con bambini visto che sono esenti dal rischio malaria (che invece, ad esempio, c’è al Parco Kruger, il più grande e famoso del Sudafrica).
Non sono quindi in grado di fare paragoni con parchi come il Kruger o riserve come il Masai Mara o il Serengeti, certo è che già questi due mi hanno fatto letteralmente innamorare del genere:-). E Alice con me…
Il nostro primo approccio è stato del tutto “improvvisato”, nel senso che con la nostra auto, qualche ora dopo essere atterrati in Sudafrica, ci siamo trovati a percorrere i tracciati nel Pilansberg, muniti di cartina e binocolo. All’inizio è naturale essere presi dall’entusiasmo da avvistamento, ve lo assicuro, soprattutto se ti ritrovi ogni cento metri a dare la precedenza a soggetti che non incontri tutti i giorni.
Zebre.
Gnu, impala, kudu e Pumba.
Giraffe.
Ancora elefanti.
Gnu.
E struzzi, di solito posizionati davanti ad un’auto costretta a pazientare e fermarsi.
E c’è l’eccitazione da “gamedrive” (come qui chiamano i safari), ossia ci si ferma, si scruta tra il bush e si aspetta. Qualcosa vedi.
E’ impossibile non sentirsi un po’ bambini, come se all’improvviso tutte quelle immagini e figure che hai sempre visto fra le pagine di un libro o “reali virtuali” nei film si fossero materializzate davanti ai tui occhi. E beh si sono materializzate. Se poi ti assiste la fortuna, può capitare che in ritardo sull’uscita dal parco condividi la strada con leone e leonessa che ti ignorano come nemmeno ci fossi. Oppure di vedere una piccola "volpe" all’alba.
Noi abbiamo passato i primi due giorni, soprattutto Alice&io in preda a un’incontenibile euforia. Tra l’altro nel Pilansberg esistono “nascondigli” dove è possibile lasciare l’auto ed entrare in piattaforme di legno recintate: di solito danno su stagni o pozze di acqua, dove aspettare con pazienza di scorgere gli animali, indovinare le forma delle ninfee al tramonto o osservare gli uccelli.
C’è chi si ferma lì anche a fare dei picnic, importante è il silenzio (e infatti noi ci siamo concessi un rapido passaggio).
Il “safari” individuale è perfetto come prima esperienza, soprattutto se hai un pupo con te: sei completamente libero di scegliere i tuoi tempi, fermarti e osservare, esprimere a volume elevato (in auto) la soddisfazione da avvistamento e nel mio caso, fare quelle due o trecento foto a uscita:-).
Sperimentare il safari con una guida locale ti offre però l’opportunità di superare il semplice entusiasmo e capire qualcosa in più rispetto a mettere una crocetta su ognuno dei “big five” (ossia elefante, rinoceronte, bufalo, leone e leopardo).
E’ quasi banale a dirsi ma nell’assistere al “vivere” nel bush, nei parchi è impossibile non avvertire intensamente come ogni piccola parte sia strettamente collegata all’altra. E’ una sensazione che cresce a mano a mano che ci passi del tempo, quando cominci a esserne spettatore fin dall’alba.
Una delle nostre guide ci aveva detto che l’alzarsi del sole nel bush è uno spettacolo incredibile, pensavo esagerasse, soprattutto considerato che per farlo la sveglia suona prima delle cinque e devi convincere una pupa a seguirti:-). Ho capito che aveva ragione appena fuori. La bruma ti avvolge a banchi, mentre il sole tenta di vincere la foschia.
Il silenzio è rotto solo dal verso di qualche animale o dall’avvicinarsi inaspettato di una coppia di linci, alla ricerca di qualche carcassa avanzata dal pasto dei leoni.
Dove si aprono spazzi di verde si accumulano gli animali, visioni che paiono appartenere a mondi quasi irreali per quello che solitamente conosciamo. In quel momento ho avvertito una sorta di nostalgia per qualcosa che c’era ma che già mi mancava.
Ci sono le orecchie buffe e gli occhi dolci dei kudu o degli impala che compaiono e scompaiono tra gli alberi.
Le code in piedi, ben dritte, di “Pumba” (un facocero): appena la mamma capta un possibile pericolo li vedi allontanarsi veloci, con tutte quelle code alzate come punti esclamativi.
Solo il momento prima ti chiedi come mai non si sia vista nemmeno una giraffa, la strada gira e ce ne sono quattro, cinque che col collo lunghissimo mangiano da un albero.
Intanto la guida ti racconta aspetti incredibili: come posizionarsi per non irritare gli elefanti, l’età di quel cucciolotto appena nato, la gestazione di mesi e mesi degli elefanti, di foglie che passate nelle mani hanno l’effetto di una saponetta, della limitata sopravvivenza del leone se vive in zone con molti rivali, delle zebre, ognuna diversa dall’altra e dell’ippopotamo, capace di uccidere più persone in Africa di ogni altro animale.
Ho ascoltato incredula della campagna di salvaguardia dei rinocerenti, divenuti negli ultimi anni bersaglio dei bracconieri per il loro corno, venduto a decine di migliaia di euro al chilo a ricchi asiatici che credono di guarire così impotenza e cancro.
Arrivano di solito con gli elicotteri, li avvistano, colpiscono e scappano lasciando centinaia di animali morti ogni anno. La situazione già difficile in Sudafrica, dove grazie alla maggior ricchezza è possibile sviluppare più controlli, peggiora in altri paesi africani, incapaci di resistere in alcun modo a questi attacchi.
Il risultato? Un animale che si era riusciti a salvare dall’estinzione è di nuovo in pericolo.
Poi c’è la cacca dell’elefante e gli uccellini che si accompagnano a giraffe, zebre ed elefanti per mangiare gli insetti che ronzano attorno.
Ti può capitare di imbatterti in un intero branco di elefanti, oltre una cinquantina che diligenti, in fila, si muovono verso l’acqua, è quasi una danza, di gioia ed eccitazione, che aumenta a mano a mano che si avvicinano alla pozza. La loro andatura ha una grazia quasi silenziosa che fatica ad accordarsi a tutta prima alla loro mole.
Mi ha meravigliato e affascinato rendermi conto di come a poco a poco non siano solo gli animali più nobili ad incantarti ma anche quelli che proprio non “ti aspetti”. Ad esempio quell’insetto color della pece che ha un nome poco romantico (dung bee, uhm…) per via della mini palletta, fatta di escrimenti, sulla quale rotola e si arrotola cercando di trasportarla. L’elefante passa 18 ore della sua giornata a mangiare e della sua “cacca”, nel bush, non si butta via niente…
In questi momenti è impossibile non avvertire l’equilibrio perfetto che c’è e dovrebbe continuare ad esserci nelle cose: l’alba e il tramonto, l’alternarsi delle piogge, la notte e il giorno, gli animali che trascorrono le ore a difendersi, quelli che cacciano o raccolgono, quelli che ascoltano. Tutto è naturalmente logico. Qualcuno ha scritto o detto che si consuma il rituale della vita e della morte. E’ vero. Sotto un improvviso acquazzone abbiamo indovinato tra l’erba alta le sagome di due leonesse: erano a caccia di una zebra, salvata dalla sua prontezza a correre.
Al termine del nostro ultimo safari (con la solita alzataccia all’alba e tè bollente) ci siamo imbattuti in un leone. Era fermo, pareva contemplare il sorgere del sole, in realtà ci ha spiegato Joe, il ranger che ci accompagnava nell’Addo Elephant Park, stava studiando il territorio.
E infatti qualche minuto dopo ha cominciato a muoversi, dall’altro lato della distesa verde si avvicinava un altro leone, inseme ad una leonessa.
Era il segnale: faceva capire al primo che doveva andarsene. In questo gioco di forze noi abbiamo avuto l’opportunità di vedere i leoni passare a qualche centimetrodi distanza dal nostro veicolo. Il cuore accelera e gli occhi si spalancano increduli a una simile bellezza. E ti meravigli come tutto conviva sullo stesso sfondo di terra rossa: leone, dung bee e cacca di elefante.
Voglio vedere gli animali, anche io:-).
Qualche info in più
Il parco Pilansberg: la lonely planet lo definisce un po’ affollato, io adepta della guida ero partita prevenuta, ho dovuto ricredermi
Addo National Elephant Park: qui di sicuro è impossibile che non vediate almeno un branco di elefanti (ce ne sono oltre 500), la vegetazione è di un verde incredibile
In difesa dei rinoceronti:
qui e
qui
Un
lodge childfriendly dove sentirsi speciali e fuori dal mondo (la pupa è stata accolta da un biscotto homemade con tanto di nome “alicioso cioccolatoso”)