Nostalgia da “lungo viaggio”. Sudafrica II.

Ho cominciato a sentire la mancanza quando ancora non l’avevo lasciata. Questa è stata di sicuro la sensazione più forte dei giorni di safari. Insieme all’emozione di scorgere un leone camminare lento lungo la nostra stessa strada sul far della sera o fermare la propria auto perché un metro più avanti c’è un attraversamento di zebre e subito dopo di elefanti.
Mi sono tornate in mente le parole di Ernest Hemingway, tutta quella letteratura che parla di mal d’Africa come di una ferita intensa che ti porti dentro e ti spinge a tornare, ancora e ancora. Io lo sapevo del continente, dell’Africa, ignoravo però la magia del safari. 

La mia unica esperienza era stata anni fa, una domenica pomeriggio, sottratta ad un viaggio di lavoro, a Nairobi.
Stipata su un pulmino, insieme a un’orda di turisti, avevo potuto vedere giraffe, credo un leone, zebre e scimmie formato “cittadino”. Giusto per dire li ho visto pure io:-). Diciamo che all’interno di un viaggio molto intenso e per nulla turistico si era trattata di una parentesi che mi aveva fatto sorridere ma senza lasciarmi nulla di più.
Niente a che vedere con l’esperienza sudafricana. 
Abbiamo scelto due parchi, uno, il Pilansberg, a poco più di un centinaio di chilometri da Johannesburg, l’altro, l’Addo Elephant Park, nell’Estern Cape, alla fine della Garden Route: entrambi visitabili con bambini visto che sono esenti dal rischio malaria (che invece, ad esempio, c’è al Parco Kruger, il più grande e famoso del Sudafrica).
Non sono quindi in grado di fare paragoni con parchi come il Kruger o riserve come il Masai Mara o il Serengeti, certo è che già questi due mi hanno fatto letteralmente innamorare del genere:-). E Alice con me…
 
Il nostro primo approccio è stato del tutto “improvvisato”, nel senso che con la nostra auto, qualche ora dopo essere atterrati in Sudafrica, ci siamo trovati a percorrere i tracciati nel Pilansberg, muniti di cartina e binocolo. All’inizio è naturale essere presi dall’entusiasmo da avvistamento, ve lo assicuro, soprattutto se ti ritrovi ogni cento metri a dare la precedenza a soggetti che non incontri tutti i giorni.
Zebre.
 
Gnu, impala, kudu e Pumba.
 
Giraffe.
 
Ancora elefanti.
Gnu.
E struzzi, di solito posizionati davanti ad un’auto costretta a pazientare e fermarsi.
E c’è l’eccitazione da “gamedrive” (come qui chiamano i safari), ossia ci si ferma, si scruta tra il bush e si aspetta. Qualcosa vedi.
 
E’ impossibile non sentirsi un po’ bambini, come se all’improvviso tutte quelle immagini e figure che hai sempre visto fra le pagine di un libro o “reali virtuali” nei film si fossero materializzate davanti ai tui occhi. E beh si sono materializzate. Se poi ti assiste la fortuna, può capitare che in ritardo sull’uscita dal parco condividi la strada con leone e leonessa che ti ignorano come nemmeno ci fossi. Oppure di vedere una piccola "volpe" all’alba.
Noi abbiamo passato i primi due giorni, soprattutto Alice&io in preda a un’incontenibile euforia. Tra l’altro nel Pilansberg esistono “nascondigli” dove è possibile lasciare l’auto ed entrare in piattaforme di legno recintate: di solito danno su stagni o pozze di acqua, dove aspettare con pazienza di scorgere gli animali, indovinare le forma delle ninfee al tramonto o osservare gli uccelli. 
 
C’è chi si ferma lì anche a fare dei picnic, importante è il silenzio (e infatti noi ci siamo concessi un rapido passaggio). 
Il “safari” individuale è perfetto come prima esperienza, soprattutto se hai un pupo con te: sei completamente libero di scegliere i tuoi tempi, fermarti e osservare, esprimere a volume elevato (in auto) la soddisfazione da avvistamento e nel mio caso, fare quelle due o trecento foto a uscita:-).
Sperimentare il safari con una guida locale ti offre però l’opportunità di superare il semplice entusiasmo e capire qualcosa in più rispetto a mettere una crocetta su ognuno dei “big five” (ossia elefante, rinoceronte, bufalo, leone e leopardo). 
 
E’ quasi banale a dirsi ma nell’assistere al “vivere” nel bush, nei parchi è impossibile non avvertire intensamente come ogni piccola parte sia strettamente collegata all’altra. E’ una sensazione che cresce a mano a mano che ci passi del tempo, quando cominci a esserne spettatore fin dall’alba.
Una delle nostre guide ci aveva detto che l’alzarsi del sole nel bush è uno spettacolo incredibile, pensavo esagerasse, soprattutto considerato che per farlo la sveglia suona prima delle cinque e devi convincere una pupa a seguirti:-). Ho capito che aveva ragione appena fuori. La bruma ti avvolge a banchi, mentre il sole tenta di vincere la foschia.
Il silenzio è rotto solo dal verso di qualche animale o dall’avvicinarsi inaspettato di una coppia di linci, alla ricerca di qualche carcassa avanzata dal pasto dei leoni.
Dove si aprono spazzi di verde si accumulano gli animali, visioni che paiono appartenere a mondi quasi irreali per quello che solitamente conosciamo. In quel momento ho avvertito una sorta di nostalgia per qualcosa che c’era ma che già mi mancava.
 
Ci sono le orecchie buffe e gli occhi dolci dei kudu o degli impala che compaiono e scompaiono tra gli alberi.
Le code in piedi, ben dritte, di “Pumba” (un facocero): appena la mamma capta un possibile pericolo li vedi allontanarsi veloci, con tutte quelle code alzate come punti esclamativi.
Solo il momento prima ti chiedi come mai non si sia vista nemmeno una giraffa, la strada gira e ce ne sono quattro, cinque che col collo lunghissimo mangiano da un albero.
Intanto la guida ti racconta aspetti incredibili: come posizionarsi per non irritare gli elefanti, l’età di quel cucciolotto appena nato, la gestazione di mesi e mesi degli elefanti, di foglie che passate nelle mani hanno l’effetto di una saponetta, della limitata sopravvivenza del leone se vive in zone con molti rivali, delle zebre, ognuna diversa dall’altra e dell’ippopotamo, capace di uccidere più persone in Africa di ogni altro animale. 
Ho ascoltato incredula della campagna di salvaguardia dei rinocerenti, divenuti negli ultimi anni bersaglio dei bracconieri per il loro corno, venduto a decine di migliaia di euro al chilo a ricchi asiatici che credono di guarire così impotenza e cancro.
Arrivano di solito con gli elicotteri, li avvistano, colpiscono e scappano lasciando centinaia di animali morti ogni anno. La situazione già difficile in Sudafrica, dove grazie alla maggior ricchezza è possibile sviluppare più controlli,  peggiora in altri paesi africani, incapaci di resistere in alcun modo a questi attacchi.
Il risultato? Un animale che si era riusciti a salvare dall’estinzione è di nuovo in pericolo.
 
Poi c’è la cacca dell’elefante e gli uccellini che si accompagnano a giraffe, zebre ed elefanti per mangiare gli insetti che ronzano attorno.
 
Ti può capitare di imbatterti in un intero branco di elefanti, oltre una cinquantina che diligenti, in fila, si muovono verso l’acqua, è quasi una danza, di gioia ed eccitazione, che aumenta a mano a mano che si avvicinano alla pozza. La loro andatura ha una grazia quasi silenziosa che fatica ad accordarsi a tutta prima alla loro mole.
 
Mi ha meravigliato e affascinato rendermi conto di come a poco a poco non siano solo gli animali più nobili ad incantarti ma anche quelli che proprio non “ti aspetti”.  Ad esempio quell’insetto color della pece che ha un nome poco romantico (dung bee, uhm…) per via della mini palletta, fatta di escrimenti, sulla quale rotola e si arrotola cercando di trasportarla. L’elefante passa 18 ore della sua giornata a mangiare e della sua “cacca”, nel bush, non si butta via niente…
In questi momenti è impossibile non avvertire l’equilibrio perfetto che c’è e dovrebbe continuare ad esserci nelle cose: l’alba e il tramonto, l’alternarsi delle piogge, la notte e il giorno, gli animali che trascorrono le ore a difendersi, quelli che cacciano o raccolgono, quelli che ascoltano. Tutto è naturalmente logico. Qualcuno ha scritto o detto che si consuma il rituale della vita e della morte. E’ vero. Sotto un improvviso acquazzone abbiamo indovinato tra l’erba alta le sagome di due leonesse: erano a caccia di una zebra, salvata dalla sua prontezza a correre.
 
Al termine del nostro ultimo safari (con la solita alzataccia all’alba e tè bollente) ci siamo imbattuti in un leone. Era fermo, pareva contemplare il sorgere del sole, in realtà ci ha spiegato Joe, il ranger che ci accompagnava nell’Addo Elephant Park, stava studiando il territorio.
E infatti qualche minuto dopo ha cominciato a muoversi, dall’altro lato della distesa verde si avvicinava un altro leone, inseme ad una leonessa.
Era il segnale: faceva capire al primo che doveva andarsene. In questo gioco di forze noi abbiamo avuto l’opportunità di vedere i leoni passare a qualche centimetrodi distanza dal nostro veicolo.  Il cuore accelera e gli occhi si spalancano increduli a una simile bellezza. E ti meravigli come tutto conviva sullo stesso sfondo di terra rossa: leone, dung bee e cacca di elefante.
 
Voglio vedere gli animali, anche io:-).
Qualche info in più
Il parco Pilansberg: la lonely planet lo definisce un po’ affollato, io adepta della guida ero partita prevenuta, ho dovuto ricredermi
 
Addo National Elephant Park: qui di sicuro è impossibile che non vediate almeno un branco di elefanti (ce ne sono oltre 500), la vegetazione è di un verde incredibile
 
In difesa dei rinoceronti: qui e qui
 
Un lodge childfriendly dove sentirsi speciali e fuori dal mondo (la pupa è stata accolta da un biscotto homemade con tanto di nome “alicioso cioccolatoso”) 
 
 

Tornare. Sudafrica I.

Esistono pochi luoghi al mondo che mi danno la sensazione di ritorno. Dove sono nata e dove vivo, perché ci sono le mie radici. L’isola perché un po’ mi assomiglia. E poi l’Africa, nel senso di continente, perché fin dalla prima volta mi ha offerto la possibilità di scoprire qualcosa che non conoscevo ma che mi appartiene. Mi è capitato di viaggiare e ammirare altri paesi, di sentirmi affascinata, di pensare anche di poterci vivere per un breve periodo ma mai ci ho associato la parola ritorno. Come se avessi dimenticato un pezzo con cui confrontarmi e solo nel tornare fosse tutto di nuovo chiaro.

Pensavo di poter condensare il viaggio in Sudafrica in un unico post, beh impossibile. E così questo è solo il primo capitolo, al quale seguiranno altre due puntate.

Rispetto all’Africa che ho conosciuto in passato il Sudafrica si è rivelato diverso, almeno per quanto abbiamo visto. Come se fosse un po’ africano, un po’ europeo: una sfumatura che in taluni casi si accende, in altri si attenua. Credo comunque dipenda dalla regione del Western Cape e Garden Route (la principale che abbiamo attraversato oltre all’Estern Cape e all’area naturalistica vicino a Johannesburg), mentre cambi addentrandosi all’interno, dove sono più numerose le comunità Xhosa, San o Zulu.

Probabilmente ho avvertito una differenza inizialmente forte perché l’ultimo mio viaggio sul continente era stato di lavoro,  in regioni kenyote molte povere e poco urbanizzate (se si esclude un passaggio a Nairobi).

Il vantaggio di questa sfumatura sta nel poter viaggiare con molta tranquillità, muovendoti liberamente con una pupa di tre anni:-).

E’ un paese dalle forti emozioni: i paesaggi dai colori forti, avvolti dal "misty" (la bruma che ti ritrovi perenne su Cape Town ma anche alle 5 di mattina nel bush), le strade da percorrere per centinaia di chilometri incrociando un paio di auto, l’oceano che non ha mai pace, fatto giusto per gli squali e i surfisti, e gli animali, non solo quelli dei grandi parchi. 

E’ un paese che cammina, lo avverti dalla gente, dai cambiamenti ancora in corso dopo la fine dell’Aparthaid oltre 15 anni fa, da quello che è già stato fatto e da molto che c’è ancora da fare. 

 

Sudafrica I. La Città Madre.

Cape Town è una città dove non c’è molto da visitare nel senso classico del termine, si tratta soprattutto di viverla, sospesi fra mare e montagna: le spiagge, i paesaggi, i profumi, i giardini e la gente. 

Per i sudafricani è la "Città Madre", un po’ in qualche modo il sunto di una nazione dove convivono etnie, mondi, luoghi tanti diversi, non sempre del tutto integrati, ma ormai quasi pacificati, dopo anni di lotta. 

La salita alla Table Mountain che si staglia sullo sfondo, perennemente avvolta da una tovaglia, una passeggiata al Waterfront, il porto costruito dagli inglesi, diventato oggi affollato di ristoranti, negozi e turisti, l’aperitivo a Signal Hill per ammirare la città ai propri piedi. O spingendosi in centro, si supera il Castello di Buona Speranza per un picnic ai Company’s Gardens, dove trovi facce di ogni tipo e innumerevoli scoiattoli da parco inglese, in un’atmosfera di festa che solo due decenni fa qui sarebbe stata impossibile.

 

 

 

Al Waterfront il bello è sedersi a uno di quei ristorantini appollaiati sui ballatoi e osservare il movimento attorno.

 Noi ci siamo fermati giusto un paio di ore ritornando da Robben Island, l’isola che è stata per molto tempo prigione e dove Nelson Mandela ha trascorso 27 anni. Quando lo leggi sui libri e te lo raccontano pare già un fatto sorprendente, andarci e sentirselo narrare da un ex-detenuto lo è ancora di più.

Passi da una cella all’altra, leggi le parole di chi è passato di lì, alcuni sono ancora vivi altri no, osservi il cielo così blu dal campo centrale dove i prigionieri spaccavano pietre e segui tutti quei gabbiani che si alzano e si abbassano al porticciolo. 

La nazione "arcobaleno" oggi è un altro mondo, e qui, in quest’isola separata da pochi chilometri di mare si è sviluppata una rivoluzione quando ogni cosa pareva immobile.

Nonostante il posto sia visitato da frotte di turisti, basta allontanarsi lentamente dalla fiumana, lasciare un po’ indietro il gruppo per avvertire la sorpresa del luogo.

Pare incredibile che ci siano state persone, come Mandela, in grado di mantenere per anni inalterati lucidità mentale e ideali tanto da riportarli nella vita quotidiana da uomini ormai liberi senza alcun odio.

E’ una delle forze di questo paese che cammina e che in certi momenti ha addirittura corso. Un aspetto che mi ha piacevolmente sbigottito, quasi che da noi non si fosse più abituati a correre, e nemmeno a procedere a passo d’uomo. 

 

 

Spingendosi alla periferia della città, lontano dai quartieri eleganti di Campsbay, Waterfront e Seapoint, i sobborghi cedono fino a diventare vere e proprie township, dove le case sono messe insieme con lastre di lamiera colorate. La povertà, ci hanno detto qui,  è pressoché la stessa di anni fa, sono migliorati e aumentati i sobborghi, abitati da una classe media che sta crescendo (e colorando).

Per i turisti esistono anche percorsi accompagnati nelle township, probabilmente si può rivelare una occasione per conoscere e capire un piccolo pezzo. Essendo stata in altre condizioni in Africa, essendo entrata come ospite nella casa di gente poverissima, mi è parso impossibile scegliere qui un "tour" di questo tipo. E abbiamo solo visto da fuori.

 

Verso il Capo.

Città del Capo non sarebbe la stessa se a breve distanza non ci fosse la penisola più a sud dell’emisfero. Il Capo è uno di quei luoghi che solo a fermarti per qualche ora ti danno emozioni forti, estreme, è banale a dirsi ma è impossibile respirare lì e non sentirsi carichi di energia.

La strada per arrivare scorre lungo piccoli paesi adagiati sul mare, con spiagge che dal finestrino paiono sempre le stesse per via di quelle onde alte che schiumano nell’aria. In alcune si intravedono fin da lontano casette di legno multicolor, pensate come grosse cabine.

Io me ne sono innamorata e nel tardo pomeriggio ho preteso di ripassare dalla cittadina di Muizenberg solo per fare una ventina di foto al soggetto…

Abbiamo fatto tappa a Boulder’s beach, famosa per la colonia di pinguini. Beh, per Alice è stato uno spettacolo, bagno coi pinguini compreso:-).

 

Ho ammirato il loro stare: becco semiaperto, zampe ben piantate nella sabbia, per lo più vicini vicini, quasi non facendo resistenza al vento e a molto altro,  parte integrante di tutto questo paesaggio.

Inutile dire che appena si muovono e si avvicinano all’acqua sono "adorabilmente" buffi.

Al Capo, vero e proprio, si entra in una riserva protetta, si possono fare tragitti a piedi, avventurarsi verso spiagge deserte o salire fino al faro.

Per i più pigri c’è pure una funicolare che ti porta su, comunque la salita non è impegnativa, considerate che la pupa ha compiuto l’intero tragitto sulle sue gambe (esclusa l’ultima gradinata in spalla a Mr B.).

E poi là in alto capitano gli incontri più inaspettati.  

Un cartello, appena entrati nella riserva, ti mette in guardia dai babbuini e confesso che, leggendo la guida e sentendo il racconti di amici che ci erano stati, mi aspettavo di essere assalita appena scesa dall’auto:-).

In realtà di babbuini ne abbiamo intravisti giusto un paio per strada, mentre su al faro, c’era una marmotta, sola soletta, a godersi il panorama da uno sperone. E questa attitudine delle marmotte di stare a contemplare il mare deve essere un’abitudine perché dopo quella del Capo ne abbiamo incontrate varie in Sudafrica, tutte sempre su una roccia mare sullo sfondo:-).

Non l’avrei mai detto delle marmotte.

Infine il punto del Capo di Buona Speranza, che dire? Il vento soffiava parecchio!

 

Lungo la Garden Route.

Da Città del Capo ci siamo fermati nella regione dei vini, uhm questo però fa parte di uno dei capitoli successivi, dedicati a mercati, cibo e dintorni.
Dalla Garden Route mi aspettavo qualcosa di più, forse dipende dalla stagione, forse dipende dal resto che abbiamo visto. Dai racconti mi ero immaginata una strada spettacolare che corre a ridosso del mare, in realtà solo per brevi tratti è così, per il resto è una via interna. 

Chilometri e chilometri da percorrere spesso con una o due altre macchine all’orizzonte (beh questo è il bello:-)).

NNoi abbiamo fatto tappa a Knysna ad ammirare la laguna e mangiare ostriche (io e Mr B.): è la specialità del posto, da assaggiare in un locale molto alla buona e dall’atmosfera rilassata chiamato Oyster Bar.

E poi per la gioia di Alice ci siamo fermati qualche giorno al mare, a Plettenberg: l’acqua era quasi inavvicinabile, tanto era fredda e movimentata, ma le spiagge lunghe chilometri sono perfette per camminare e come diciamo pupi&io "ciacchettare coi piedi". 

Ci sono diverse spiagge, una addirittura si estende fra l’acqua dell’Oceano Indiano e quella del fiume, lo Storms River, che sfocia. Come dire calma piatta e cuore in tempesta:-).

Lo spettacolo è soprattutto nell’oceano coi surfisti che cavalcano onde incredibili, incuranti sia del freddo sia degli squali (beh almeno dai cartelli parrebbe così:-)).

A Plettenberg ci siamo uniti a una escursione in mare per vedere i delfini e le foche. E’ emozionante assistere ai movimenti dei branchi di delfini che si abbassano, saltano e scompaiono in un mare con onde simili.

Anche le foche vivono in grosse colonie e pare, da quello che ci hanno raccontato, che abbiano la meglio persino sugli squali.

 

A Plettenberg vale anche un giro la Robberg Reserve, si possono prendere vari percorsi, alcuni da vera arrampicata.

C’è chi sceglie di arrivare per un picnic verso sera (i sudafricani amano mangiare all’aria aperta e sono veri fanatici del "brai" o barbeque).

Qualcuno apparecchia come fosse in un gran ristorante: fantastico! 

Noi abbiamo scelto una camminata semplice che ci ha portato ad una spiaggia "oceanica": mare in similtempesta, schiuma nell’aria e battigia lunghissima da specchiarsi dentro.

 

 

 

Da Plettenberg ci siamo rimessi in viaggio. Purtroppo avendo pochissimo tempo ci siamo fermati per poche ore alla Foresta Tsitsikamma, arrivando solo fino al famoso ponte sospeso. In realtà si tratta di un parco ricco di sentieri, flora e cascate che varrebbe una visita più estesa. Ma noi avevamo da correre verso l’Addo Elephant Park… to be continued…

 

 

Uhm, dimenticavo qualche link utile caso mai voleste cimentarvi in questa parte di viaggio. Tenete presente che la zona è ricca di guesthouse e bed&breakfast,  in taluni casi però non accolgono bambini (ebbene sì) quindi è sempre meglio controllare o chiedere (altrimenti finite come noi che arrivati in un ristorante ci hanno mandato via perché non accettavano bimbi). 

Comunque ci sono tante strutture childfriendly, e la stessa Cape Town ha tutta una serie di iniziative dedicate ai più piccoli.

 

Il sito ufficiale del Sudafrica

L’agenzia locale di viaggio a cui in piccola parte ci siamo appoggiati ( e che credo aver fatto impazzire!) 

A proposito di Cape Town e dintorni

Cape Town per bambini

Il miglior ristorante di carne di Cape Town (o almeno Alice&io la pensiamo così)

Robben Island (meglio comprare i biglietti del ferry in anticipo perché di solito è tutto esaurito)

Tutto sulla Garden Route

Un ristorante dai sapori sudafricani a Plettenberg 

La guesthouse sulla spiaggia dove abbiamo dormito a Plettenberg (ossia addormentarsi col rumore del mare) 

 

All’altro capo del mondo

C’è questa cosa fantastica di poter salutare e dire ora, quando in realtà sei già nell’altro emisfero, sbadigliando, cercando di riprenderti e soprattutto tentando di interpretare una cartina per prendere la strada giusta. O almeno immagino mentre scrivo. Stamattina (ossia ieri) pensavo a come domani (ossia oggi) mi sarei letteralmente trovata più vicino al polo sud che al polo nord, uhm un po’ come scrivere un giorno per quello avanti. 

Comunque, per farla più breve, come suggerisce il cartello la cucina è chiusa, il blog sospeso (e la sottoscritta in vacanza, all’altra capo del mondo). O quasi, perché se ci sarà la possibilità vorrei raccontare di una città del Capo, sullo sfondo una montagna, spesso avvolta da una tovaglia, di una via, in questo periodo proprio giardino, dove trovi pinguini che si accompagnano a elefanti. E di un mercato, dove c’è un miscuglio arcobaleno. Pare un indovinello:-).

A presto!

Lapponia, questione di luce

Quella che non c’è. Quella che dura il tempo di due ore. Quella che credi sia a lì a ricordarti il tramonto e invece è il sorgere del sole. Quella che ogni finestra rincorre, senza interruzione, fra il giorno e la notte. Quella che crea la neve, sui tronchi, i tetti e il fiume. Non ho mai pensato tanto alla luce come nel paese della lunga notte. Ecco se dovessi dire che cosa mi ha affascinato della Lapponia direi senza dubbio la luce, quella che non c’è.
Perché a pensarci è come se durante la loro estate senza buio, ci fosse una grande e unica ubriacatura colossale e poi nel corso dell’inverno una ricerca continua, un tentativo di rincorrere quella poca luce che c’è, quel sole che sorge quasi a mezzogiorno e tramonta dopo essere salito di poche spanne all’orizzonte. 

Il freddo e il buio. Erano le due cose che mi spaventavano di questo viaggio. Ho dovuto ricredermi. Per il primo siamo stati fortunati, solo una media di -15:-) e la pupa talmente coperta da richiedere a gran voce di fare un giretto con lo slittino, sulla neve, dopo cena.
Penserete che siamo pazzi, beh l’avrei creduto anche io prima della Lapponia. In realtà c’è un’abitudine così naturale a convivere e vivere senza la luce del giorno che è perfettamente normale vedere qualcuno sciare o scivolare sulla neve all’ora di cena. E noi ci siamo adeguati.

Il buio poi non è quello che conoscevo. C’è una luce fatta di ombre, di azzurrino, impastata alla neve che non ti lascia mai solo. E rende affascinante il paesaggio. Poi ci sono le persone con le loro case, anche le più isolate hanno una luce alla finestra che rimane accesa sempre, quasi a ricreare così un po’ del chiarore che non hanno. 

La luce è anche quella dei fuochi, accesi per raccogliersi attorno per riscaldarsi, scrutare il cielo alla ricerca dell’aurora boreale.

E il sole quando arriva albeggia come fosse al tramonto. Il risultato sono i colori che vedete nella foto di apertura, scattata verso le undici del mattino, poco prima di un’escursione in motoslitta sul fiume ghiacciato.

Contate poco meno di 120 minuti e dall’altra parte avrete la luna, mentre il sole tinge di rosso aranciato l’altro versante.

A tutto si aggiunge la neve, e lì capisci che le persone, gli alberi, le colline, e poi quel fiume non potrebbero essere senza. Non copre le cose, non le avvolge, è nei tronchi, nei tetti, sulle strade, li illumina e li sottrae alla notte: è come se fosse perenne, tutt’uno con le cose.

Naturalmente è freddo, molto freddo, ma è come se ad ogni minuto respirassi una boccata di neve, senza limiti, compromessi ma stranamente piacevole:-).

 

Il viaggio. Non avrei mai pensato di andare in Lapponia fino a qualche anno fa. Poi due mesi fa è nata l’idea: l’invito di Babbo Natale per la pupa. E io come come al solito ho funzionato da agenzia di viaggio familiare.

Ho scovato un "cabinlog" (beh, un piccolo cottage con tanto di cucinotto, ridotto all’essenziale e sauna in casa, fantastica!!!), giusto fuori Rovaniemi, ai piedi di piste da sci e piccole discese per slittini. E’ stata la scelta perfetta.

Rovaniemi, infatti, non è particolarmente bella come cittadina, è stata distrutta prima ai russi e poi dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale e quindi ricostruita da capo, con uno stile anni ’70 tendente all’est-europeo. Triste:-).

Basta lasciare alle spalle di pochi chilometri la città e tutto cambia.
In città vale la pena fermarsi un pomeriggio per una visita all’Artikuum Museum, dove scoprire tradizioni e storia dei lapponi, un paio di compere (ai designaddicted consiglio Pentik, io ho scovato due renne porta candele proprio in lappishmood) e una cena da Nili’s restaurant, dove potrete sperimentare la cucina lappone (che ammetto non mi ha particolarmente impressionato, considerando che già partivo prevenuta nei confronti della carne di renna). 

 

In giro, sulla neve. Gli husky, le renne e Alice. Le escursioni sono state scelte considerando la nostra pupa. E dopo una prima uscita in motoslitta, classificata come "giornata da dimenticare" causa pupa non soddisfatta, direi che la corsa in slitta coi cani husky e la passeggiata con le renne al chiarore della luna piena, hanno definitivamente conquistato Alice, direi più di Babbo Natale:-).

Naturalmente in questi casi venite forniti da equipaggiamento di copertura degno di omino michelin doppio e il bambino non viene abbandonato al suo destino, ma viaggia con voi sulla slitta, avvolti nelle coperte:-). 

Io per non sbagliare ho riempito Alice nelle estremità di scaldini usa e getta: sì, avevo il terrore del grande gelo:-)

A guidare la slitta? Nel primo caso Mr B. , nel secondo Rudolph. In buone mani, no?

Il tutto percorrendo sentieri innevati.

 

La cucina. Vi ho già detto di Nili’s restaurant, in generale la cucina lappone mi è sembrata superessenziale, ridotta a poco o nulla (ma magari è tutta una mia falsa impressione). Renna, affumicata o cotta a filetto, salmone, pudding, pepperkor e poco altro. Siamo rimasti conquistati da un ristorante ma più per il suo arredamento fatto di ghiaccio piuttosto che per i piatti.  Direi che insieme alla corsa coi cani dagli occhi color del cielo (parole di pupi) il ristorante Snowland è stata la seconda esperienza da annotare.

Guardate un po’:-). Ovviamente si cena vestiti e in gran fretta!

Pensate che qui ogni anno rifanno pareti, tavoli, tetto tutto da capo (e beh, che ve lo dico a fà, è di ghiaccio), e ci mettono un mese e un pezzo. 

Io non smettevo di fotografare, peggio dei giapponesi di fianco a noi:-).

Il menù? Zuppa di renna affumicata (confesso, buona!), renna per Mr B., salmone per me e la pupa. E poi snaps (tipico liquorino del posto) per la sottoscritta in bicchierino rigorosamente di ghiaccio (confesso, l’ho preso solo per il contenitore:-)).

 

On the road, of course. Non sono io se sto ferma nello stesso luogo più di quattro giorni. E’ stato così che il quinto giorno ci siamo messi in auto, direzione Ranua. Per precisione verso lo zoo artico della Lapponia. Allora aperta parentesi. Io non amo gli zoo e dopo essere stati mesi fa allo zoo di Londra, al quinto animale da caldo africano nel gelo londinese avevo detto basta. Qui invece è stato diverso. Si tratta di animali solo del luogo e il tutto è in un similbosco che giri a piedi con pupo nello slittino e copertina. Ok, non è comunque il massimo, gli orsi polari non hanno a disposizione l’intera foresta artica ma un piccolo appezzamento, però è meglio di altri zoo visti. Chiusa parentesi.

Il bello di questo giro? La strada per arrivare. 

Ho visto il sole sorgere e poi tramontare dopo il mezzodì in una manciata di chilometri. E poi cottage colorati isolati, con appena una luce ad illuminarli. Mi sono goduta il paesaggio, chiedendomi come sia possibile vivere in tutta quella solitudine. Io ne sarei stordita.

Sotto avete l’albeggiare, non il tramonto.

 

Il motivo. In realtà conoscere Babbo Natale si è rivelato l’ultima delle ragioni di questo viaggio. Ancora oggi chi ci chiama per auguri e ci chiede ha tra la primissima domanda: "E Alice cosa ha detto di Babbo Natale?". Uhm, la prossima domanda. 

Credo alla fine che il bello stia più in tutte quelle lettere che giungono da ogni parte del mondo verso l’ufficio postale di Klaus (Santa) e l’omonimo Village. Sono il sogno e la magia, il resto l’ho trovato troppo umano (e commerciale). E la pupa, nonostante i tre anni, pare aver apprezzato di più altro. E davanti a Klaus mi è parso che avesse un’aria un pochino scettica:-). O forse era solo la mia di sensazione.

 

Il particolare che ha fatto la differenza? Neve a prova di angelo, piccolo e grande (no, eh?).

Ok, ci voglio andare anche io. Link utili? Ecco qua.

Rovaniemi, il sito ufficiale

Qui ho organizzato le escursioni 

Il nostro cottage

La webcam (ostinatamente guardata per più di un mese, ogni giorno, preoccupata che non ci fosse neve!)

Niente da vedé, signora

Ha decretato così il signor "I sogni non son desideri" (che d’ora in avanti chiameremo S.N.S.D), alzandosi dalla sua sedia, in compagnia del cane Rocco e regalandoci la conversazione più divertente della settimana scorsa. Premessa e avvertenza d’uso: questo non è un post "ricetta", questo non è un post "on the road", è un "ma ci sono stata, ve lo dico, ho fatto incontri, mangiato specialità (quelle che ho cucinato io all’isola e una ve la lascio), e visto pecore, tante pecore. E poooi? Niente, che dove sono stata, per l’appunto, non c’è "niente da vedè". 

 

 

Siamo partiti d’autunno: la mia idea? Freghiamo ottobre e ci facciamo un’ubriacatura di fine estate. Vero? Ma anche no.
La mia seconda idea? Andiamo a zonzo da Cagliari in su e chissà che scopriamo. Vero? Sì, a zonzo per la disperazione di Mr B. ci siamo andati qualcosa come 15 ore di auto (aiutoooo!) in tre giorni, e visto? Ci devo ancora ragionare su:-).

 

1.Cagliari: l’amarcord.
Ci ero stata la prima volta da ragazzina e di tutto ricordavo un ristorante (la prima aragosta alla catalana della mia vita) e i fenicotteri rosa. Che cosa ho fatto? Ho ricercato entrambi tra i vicoli del centro storico, un po’ sgarruppato.

Abbiamo fatto alla moda dei cagliaritani della domenica. Siamo stati al belvedere, giro al Poetto (la spiaggia bianca e enorme di città), e siamo finiti da Lillicu (il ristorante del mio buon ricordo) a mangiar su tavolacci di marmo, arselle, cernia fresca e papassinos (per la gioia di aliciotta). 

Della serie amarcord col pupo (sapete quei "vedi qui era stata mamma tua e aveva fatto, visto e mangiato, bla, bla…").

2. I fenicotteri come le anatre di Central Park. 

Ho dato dietro per ore a raccontare alla pupa di questi fenicotteri: pink, very pink. Ebbene abbiamo girato per un bel po’, chiesto ad un passeggiatore con cane che ha scrutato l’orizzonte e detto: "Sono sempre lì, che non ci sono? Strano." E io a pensare a me stessa come una novella Holden, un po’ meno giovane, si intende. 

Li abbiamo trovati? Ebbene sì. Sono rosa? Ebbene sì.
Perché io dalla macchina non li vedevo? Non sono "cecata", semplicemente li ho scambiati per boe, che quelli passano l’intera giornata col collo sotto a mangiare.
Il ritrovamento e la fotografia impossibile (che quelli erano lontani centinaia di metri) hanno messo a segno il colpo della vacanza: Mr B. ha promesso un teleobiettivo alla sottoscritta. W il fenicottero!

3.Mai fare una strada pensando a panorami e soste gastronomiche. Perché potresti trovare giusto 15 minuti di panoramica (su tre-quattro ore di auto) e il ristorante che proprio volevi provare chiuso per ferie. Della serie la prossima volta fidati dei consigli che ti danno. E non te la prendere se scorgi solo capre.

4. Le nuvole di acqua.

Ok, Piscinas è uno spettacolo, arrivi e sei solo tu (o quasi, soprattutto ad ottobre) e le dune. Non è il deserto che si aspettava la mia fantasia e il cervo sardo, che popola questi posti, non si è fatto vedere da noi (avevo suggerito a Mr B. degli appostamenti che sono stati rifiutati). Però le dune e quel mare autunnale e poi il tramonto e quella coppia che uno fa da bastone per l’altro sono uno spettacolo. La cifra di questo mare è composta da continue nuvole di acqua che vedi lontano, un vapore che avvolge tutto.

Può capitare di ritrovarvi bambini a rotolarvi con la pupa sulle colline di sabbia e poi a "ciacchettare" nell’acqua. E poi contemplare il mare, voi e pochi altri.

Il massimo del mare d’autunno, magico fino a quando non incontri il signor S.N.S.D.. N.B. si ringrazia Mr B. della foto che spunta sul mio desktop.

 

5. Le miniere. Diamo per questo la parola al signor S.N.S.D. E alla difesa qualche scatto fotografico. 

Scendo dall’auto a Montevecchio, qualche chilometro da Piscinas. E immediatamente un signore (che io a tutta prima credo cieco) chiede ad un altro "Chi arriva?". E quello "Una signora" (ossia io, che aveva visto dietro subito la pupa).

"Che è venuta a fà?" (accento romano, anzi viterbese, trapiantato in terra sarda da tre decenni)

"Me lo dica lei che devo vedè" (ho una nonna di Roma e già mi ero calata nella situazione).

"Qui non ci sta niente da vedè. Tutte "fregnacce", ci so io e Rocco". 

"E il museo? E le miniere e l’ultimo paradiso del mediterraneo e gli gnocchetti alla campidanese?"

"Che legge i giornali?".

E’ finita per l’appunto che ci siamo fatti due risate con il signor S.N.S.D., che ci ha deliziato con barzellette, aneddoti (che credo racconti ogni giorno), Alice ha usato il suo bagno e bè noi non abbiamo mangiato nel campidano gli gnocchetti.

Della serie al prossimo itinerario da sogno che leggo, faccio una pernacchia lunga, lunga. Però, bè le miniere con quella atmosfera da far west un po’ di fascino lo hanno, se solo fossero visitabili da ottobre ad aprile:-).

6. L’isola. Ovvero come Mr B. ha ritrovato Itaca.

Appena giunti in prossimità dell’attracco e saliti sul traghetto verso La Maddalena, Mr B. pareva essere come quei bambini che ritrovano il proprio giocattolo o peluche o che ne so io preferito. E sì perché lui aveva fatto comunella con i signor S.N.S.D. alla grande e concordato sul "qui non c’è niente da vedè" (che un po’ vero è ma mica così tanto).

Conclusione che vi può interessare? La ricetta che ci siamo mangiati davanti a questo panorama. Gnocchetti alla campidanese rivisitati (ho sostituito la salsiccia secca con carne di agnello tritata) con l’utilizzo dello zafferano sardo di Monreale dove avevo sognato di vedere i campi viola in fiore e invece qualcuno si è rifiutato di portarmi.

Formato 2 anni.

piesse: la foto non c’è che era ora di cena e avevo a che fare con due rompiscatole:-).

 

Ingredienti (per tre)

200 gr di gnochetti sardi

1 bustina di zafferano di Monreale

500 gr di pomodori freschi

200 gr di carne trita di polpa di agnello

1 spicchio di aglio

1 cipollotto

sale

basilico e timo

pecorino grattuggiato (poco stagionato)

 

Procedimento

Tagliate il cipollotto a fettine, lasciate imbiondire con olio, l’aglio intero che poi eliminerete, e la carne trita di agnello. Aggiungete i pomodori a pezzi. Lasciate cuocere per un’oretta abbondante, salate e profumate con basilico e timo. Bollite gli gnocchetti. Sciogliete in poca acqua calda lo zafferano. Condite gli gnocchetti prima con lo zafferano, quindi unite il sugo e servite con una bella grattata di pecorino

 

Di pane e altro ancora

 

Sono state settimane piene di nuvole, alcune più grandi altre meno, nuvole che mi hanno lasciato poca voglia di scrivere. Poca voglia di cucinare, giusto il desiderio di sfornare: impastare qua e là con l’aliciotta, pane, cakes e biscotti, e ritrovare uno di quei piatti che ancora oggi la nonna bis fa. Mi ha preso l’idea che riempire la casa di profumi, caldi (bè effettivamente sono stata graziata dal tempo anche lui annuvolato) e "coccolosi" fosse un ottimo rimedio per scacciare le nuvole ed essere meno inquieta. Ed è stato così che mi sono pure dimenticata di scrivere per dire buone vacanze o quasi (e pensare che Miss Cia aveva anche creato uno splendido au revoir): sarà per l’anno prossimo?:-).

Qualcuno penserà ad una grande confusione in queste fotografie, bè prendetelo un po’ come una parte del nostro agosto: i panini al farro appena sfornati, Mr B. e la pupa sulla sedia a dondolo (ne vedete mani e panini mangiucchiati:-)), il riso al forno di mia nonna (appena ne ho sentito il profumo è stato un po’ un salto all’indietro negli anni, avete presente no le madeleine proustiane?), la mano di una amica, ormai di quasi mezza vita, alle prese con la pappa del suo pupo formato 9 mesi durante una gita in montagna e il lago visto dal lago per il primo battesimo di pupi in acqua dolce. 

 

Di questi giorni, naturalmente, vi lascio le ricette e i riflessi, simili a quelli che fanno le case sul lago. E’ strano come le cose che ti stanno tanto vicino all’improvviso le vedi con occhi diversi. Un po’ come succede quando ho iniziato a guardare con gli occhi della pupa.
I panini, il riso, il lago, risalito da Domaso (siamo sul ramo di Como) giù fino all’isola Comacina (diciamo poco prima della casetta di Clooney) e quell’acqua, per me sempre stata da guardare come fossi pure io un personaggio da "Piccolo Mondo Antico" e dove invece la pupa mi ha trascinata, con molte remore che dopotutto eravamo giusto nel mezzo fra i due rami, per un bagno che "mamma, ma non è salata!".  E la sottoscritta di solito "il pericolo è il mio mestiere" ha bardato la pupa con ogni accessorio possibile che favorisse il galleggiamento. 

piesse: per chi non avesse dimestichezza coi laghi, quello in alto, in apertura, è un box o garage o rimessa, come la chiamate. Della serie: "Caro, hai messo la barca a fare la nanna?":-).

 

E le ricette? Riso, panini e la pappa di Wonder.
Col riso non ho inventato nulla di nuovo: il piatto della nonna bis è stato rodato negli anni e tramandato nientemeno che dalla mia bisnonna:-). Io ci ho fatto giusto qualche modifica qua e là (impossibile seguire per la sottoscritta una ricetta senza ad un certo punto voler far da sè:-)). La più grossa? Aggiungere zafferano spagnolo come fosse una paella, ma voi fatene a meno.

Il formato? Due anni suonati, ma forse anche meno dipende un po’ dal pupo.

Il bello della ricetta? Il profumo appena sfornato: l’ho talmente decantato alla pupa che non ha fatto altro che annusare e annusare…

Ingredienti (per una teglia abbondante)

200 gr di riso carnaroli

2-3 patate leggermente scottate in acqua (giusto dieci minuti)

200-300 gr di pomodori freschi

basilico e timo

parmigiano (mia nonna dice sempre "in abbondanza")

aglio

olio extravergine d’oliva

pangrattato

sale

brodo vegetale

 

Procedimento

Mettere a bagno il riso in acqua tiepida leggermente salata (per una mezz’ora). Nel frattempo tagliate a fette sottili le patate leggermente bollite. Frullate una parte dei pomodori (eventualmente sbollentati in acqua e spellati) con olio, sale, basilico, timo e una o due fettine di aglio. 

Prendete una teglia, bagnate con un po’ di passata di pomodoro, ricoprite di patate sottili e poi di riso, quindi di nuovo passata, patate, pomodori a pezzi e parmigiano. Continuate così, sull’ultimo strato spolverizzate anche di una manciata di pangrattato. Bagnate con un paio di mestoli di brodo vegetale e infornate a 175° per 50 minuti (ricoprite il riso con domopak in maniera che non secchi troppo). Di tanto in tanto bagnate con brodo vegetale (come si fa con la paella). Verso fine cottura togliete la carta in maniera da creare una crosticina. E poi godetevi il profumo!

 

Panini al farro

E i panini? Era da tempo che volevo sperimentare un pane con farina diversa dalla tradizionale, simile ad un panino al latte (perché la pupa ne va matta:-).

La scelta è caduta sulla farina di farro. Il risultato? Bè Mr B. ha detto "eccezionale", of course potrebbe essere di parte:-). Mentre io mi sono innamorata della foto delle mani di pupi&papi. 

Il formato? Dall’anno in poi.

Ingredienti

300 gr di farina di farro

200 gr di farina manitoba

12 gr di lievito di birra

1 cucchiaino di zucchero

1 cucchiaio di sale

200 ml di latte tiepido

1 cucchiaio di burro (circa 40 gr)

semi vari (sesamo, papavero…)

Procedimento

Sciogliete il lievito di birra in poca acqua tiepida con un cucchiaino di zucchero. Lasciate riposare per qualche minuto. Intanto unite le due farine nella ciotola dell’impastatrice. Sciogliete il sale in due dita di acqua tiepida e unite alle farine insieme al lievito. A poco a poco aggiungete il latte tiepido regolandovi con la quantità in base all’impasto (che non deve risultare nè troppo asciutto nè troppo bagnato). Una volta che si è formata la palla di impasto coprite con un panno umido e mettete a lievitare in luogo caldo (ad esempio il forno a 35°-40°) per un paio d’ore. 

Quando sarà raddoppiato di volume riprendete, reimpastate e formate tanti panini a piccole pagnotte. Spolverizzate con dei semi e spennellate con poco latte. Rimettete a lievitare in luogo caldo per un’altra oretta. 

Riscaldate il forno a 210° e infornate per venti minuti, abbassate a 190° e lasciate cuocere fino a quando i panini diventano dorati. 

 

piesse: dimenticavo la pappa da trasferta per il piccolo Wonder (il pupo della mia amica che è una meraviglia:-). Formato? 7-8 mesi.

La pappa di Wonder

una zucchina piccola

1 foglia di lattuga

1 fettina piccola, piccola di zucca

un odore di carota

giusto una fetta di patata

qualche pisellino

1 cucchiaino di formaggio grana reggiano

1 cucchiaino di olio

ricotta fresca da aggiungere

1 foglia di basilico fresco

 

Il procedimento? Bè qui basta bollire tutte le verdure, frullare con poca acqua, olio e parmigiano. Trasferire nel porta pappa e al momento servire con la ricotta fresca.