Scones al cheddar: so british

Ho passato il weekend in viaggio. Naturalmente Londra- Milano dura un attimo ma ho continuato a sentirmi sospesa da venerdì (giorno prima della partenza) a domenica (giorno dopo l’arrivo). Sarà la casa con quel parquet scricchiolante che ancora mi pare di sentire, saranno quelle valigie con ben 11 chili di extra che Mr B., vista la grazia che ci ha fatto un non inglese all’aeroporto, 

mi ha perdonato con una risata quando dall’ultimo  trolley ci ha estratto pure un chilo di pastinache (“e queste che cavolo sono?”). Sarà tutta quella Londra che ancora sento addosso. Poi oggi è cambiato tutto: è lunedì, è marzo e qui c’è il sole, ma proprio sole, pieno e sfacciato.

La cucina a casa non ha ancora riaperto, in compenso venerdì, munite di doppio forno londinese, con Alice abbiamo sperimentato la versione salata degli scones.

Perché insistere vi chiederete? Innanzitutto sono tipo maniacale, di quelli che scoperta una cosa (sia uno scrittore sia un regista sia una tipologia british di radici) poi devono immancabilmente sperimentare la serie. Secondariamente, fatto da non sottovalutare, nel frigorifero giaceva una fetta di cheddar di Neal’s Yard (vi ricordate del Borough Market) da far fuori.

Ecco il cheddar  è uno dei pochi e rari formaggi che parlano inglese. Provate a pensare a qualcosa di profondamente e banalmente british. I bus a due piani, rossi. I cab neri (mi spiegate perché gli inglesi sono riusciti a conservare dei taxi che ti viene voglia di salire ogni volta che ne vedi uno?). Il Big Ben uno pari con il Tower Bridge e ormai pure con il London Eye.

Gli scoiattoli di St. James Park e i cigni di Hyde Park. L’Alicetta in cabina rossa (ok questo per la sottoscritta). Sorry, please e grazie, thank you. La pioggia.

 

L’ora del tè e Mind the gap. Il pudding, i pies. E gli scones.

Tenete conto che, come la versione dolce, lo scone si presta al formato 12 mesi, perfetto come pseudo panino morbido da mordere. La mia modifica? Abbassato la dose british di burro e lavorato con qualche cucchiaio di buttermiclh. E profumato con timo.

Naturalmente lo scone salato si presta ad innumerevoli variazione: potete sostituire il cheddar con parmigiano piuttosto che formaggio tipo Emmental o latteria poco stagionato (per bebè sui 12 mesi), o introdurci delle verdure cotte (patate, zucchine ad esempio).

piesse: ancora per qualche giorno il cucchiaino sarà in versione british, non fosse altro per farvi vedere come utilizzo il chilo di pastinache in formato inizio svezzamento

 

Ingredienti

200 farina

50 gr di burro

2 uova

60 gr di cheddar grattuggiato

timo

1 bicchiere di buttermilch (o latte e yogurt), q.b. per lavorare l’impasto

1 cucchiaino abbondante di baking powder (o mezza bustina di lievito istantaneo)

Procedimento

Simile, simile a quello degli scones dolci (anche se dovete ricavare dei panetti più bassi). Impastare farina (nella quale avete stemperato il lievito) e burro con le dita, mescolare il formaggio grattuggiato, un pizzico di sale e il timo. Aggiungere le uova sbattute (lasciate un paio di cucchiai per spennellare). Aiutarsi con il buttermilch per lavorare l’impasto. Dovete ottenere una consistenza morbida ma che possa agevolmente essere stesa per poi ritagliare i tondi.

Su carta da forno ricavate delle forme tonde non troppo alte (circa 1 cm), spennellate e passate a 180° per 10-15 minuti. Potete mangiarli caldi, caldi vuoti oppure anche tagliare e imbottire con prosciutto, salmone affumicato (sopra i 24 mesi) o del formaggio fresco. 

 

 

Zuppa di pesce e latte di cocco: eglefino 2.

Di haddock e dintorni sapete ormai tutto, grazie alla prima puntata. Si dà il caso però che la sottoscritta di eglefino ne avesse acquistato parecchio al Fish Shop (sì, si chiama proprio così, tanto per non sbagliare). E che da un po’ stesse rimuginando sul latte di cocco e la possibilità di prendere l’ingrediente british e dargli una piccola rivisitazione, diciamo esotica.
Dopotutto Londra è una di quelle metropoli dove viene semplice fare qualcosa come cento passi e sentire gli odori di almeno dieci cucine diverse. E’ di sicuro una delle ragioni per le quali non mi stancherei di viverci (credo che sia pure uno dei motivi per cui qui mangerei a tutte le ore se il mio stomaco, poveretto, me lo permettesse). Nella mia lista ho già sbarrato la cucina malesiana, quella libanese (fantastique!), la giapponese (bè qui niente di nuovo), l’indiana con accenti europei (consumata da Zayka in Kensington Gardens in una delle due serate di libera uscita senza pupi), bè of course british autentica. Le ho provate tutte? Naturalmente no, ma ho buone possibilità viste le tre settimane ancora a disposizione.

Niente di meglio in questa città che sa ogni volta di posti lontani, che prendere dell’haddock e unirlo al latte di cocco. Qui è facile, basta guardarsi in giro, e ammirare la capacità di far convivere la tradizione con l’avanguardia più spinta. Non solo in cucina, ma anche dal punto di vista architettonico. Ad esempio: se camminate da St. Paul Cathedral verso il Tamigi, la Tate Modern con il suo Millenium Bridge si contrappone felicemente al Tower Bridge e alla Tower of London poco più in là. Diciamo circa un millennio di storia che si rispecchia negli edifici senza troppi problemi (nel senso di brutture architettoniche fatte). 

Se decidete di andare alla tate arrivate dal ponte, è spettacolare e munitevi di molto pazienza se, pur benedetti di nanna della pupa, avete con voi un Mr B. poco amante dell’arte contemporanea. 

Certo anche qui si è parlato in passato di speculazione edilizia (vedi la rapida crescita di grattacieli), nel complesso però finora l’impressione non è stata negativa come in altri posti.

E ci sono anche esempi di nuova architettura al servizio dei più piccoli (vedi il Childhood Museum a Benthal Green), dove in queste settimane ti può capitare, alla mostra Sit Down, di trovarci pure il vasino “ottocento inglese” o il primo esempio di chaise longue per la prima infanzia (altro che Le Corbusier).

Per tornare alla ricetta, considerata l’impossibilità di produrre una vellutata (vedi cucina sfornita di Mr James) ho deciso che era tempo di zuppa. Verdure tagliate piccole, piccole, unite a tocchetti di pesce e latte di cocco, a rendere il tutto più cremoso, vagamente dolce e profumato di luoghi poco inglesi ( devo dire che la ricetta mi ricordava una sorta di zuppa thai). E per finire del lemongrass che qui poco ci manca infili anche nel latte di pupi al mattino:-).

Tenete conto che per via della presenza del latte di cocco la ricetta è da sottoporre a formato di 24 mesi, ma se proprio volete cimentarvi basta rinunciare al tocco esotico, limitarsi a qualche cucchiaiata di latte o brodo vegetale e anche un bebè di 12 mesi non avrà alcun problema. Inutile dire che la zuppa con aggiunta di pepe e sale è ottima anche per mamma&papà.
piesse: se vi riesce impiattate in scodella un po’ meno british style della mia (cominciate a riconoscere il servizio di Mr James e il bordo della finestra dove ormai mi sono ridotta a fotografare?). 

 

Ingredienti

1 filetto di eglefino (o merluzzo all’occorrenza)
2 patate

1 porro
½ scalogno
½ tazza di latte di cocco

lemongrass
olio EVO

 

Pulite le verdure e tagliate a pezzetti. In una pentola mettete la cipolla con l’olio, unite le verdure, il lemongrass e girate. Bagnate con acqua o brodo e lasciate cuocere per una decina di minuti. Aggiungete il pesce e il latte di cocco. Cuocete fino a quando le verdure saranno morbide. La zuppa dovrà essere bella densa. Servite.

Mr Fish Pie: eglefino 1.

 

E’ un po’ come il pudding o l’English breakfast. O il teatime con scones e jam. Perfettamente british, tradizionalmente british. Come la cupola della cattedrale di St. Paul, "da conservare ad ogni costo", ripeteva ogni giorno Churchill. E la chiesa è ancora lì. Pochi passi più in là, in quella che era la via della stampa, piccola svolta a destra e si torna giusto indietro di 400 anni per il pranzo.

Of course, allo Ye Olde Cheshire Cheese puoi scegliere, magari seduto al posto preferito del dr. Samuel Johnson, la ale che fa per te: bitter, mild o lager. Da accompagnare con un pie, magari di fish, o un roast abbondantemente accompagnato da gravy (per la sottoscritta sempre troppo).

O fish and chips, che più british non si può.

E’ affascinante come in cucina possano convivere e rinascere e risorgere (aggiungerei io) ingredienti inflazionati e bistrattati per tanto tempo. Prendete l’haddock o eglefino. Il nome, nella sua traduzione italiana, mi ha subito colpito: pare un incrocio fra un folletto e un pesce. L’idea di cucinarlo in qualche maniera è stata immediata. Ho adocchiato un Fish shop mentre arrancavo in salita verso il nido della pupa. E sulla via del ritorno ho fatto l’acquisto con tanto di lemongrass as a present (bè a dir la verità con quello che costava il pesce niente era regalato). 

Tornata a casa ho fotografato e studiato.

Lo so, la cucina inglese in tanti evoca brutti ricordi. Anche nella sottoscritta. Nel mio viaggio studio a Londra, circa un secolo fa, venivo dotata ogni giorno di sandwiches a base di non so più che con un ingrediente che non mancava mai: circa un panetto di margarina (che non ho mai, ma proprio mai sopportato). E poi il gravy, intongoli che bagnavano, affogavano e suicidavano ogni tipo di preparazione. Infine fish&chips a base del pesce peggiore fritto e rifritto. 

Qualcosa in realtà sta cambiando, se non è già cambiato nella cucina anglosassone. Sono arrivati gli chef della nuova generazione ad alleggerire, rinnovare ed educare. Certo perché di educazione alimentare qui si parla fin dalla scuola: si sono sviluppati nuovi menù per le mense scolastiche, si organizzano corsi di cucina per bambini ( e ve ne parlerò, giurin giuretta), ci sono siti dove si parla solo ed esclusivamente di cucina dallo svezzamento in poi (diciamo come il cucchiaino ma molto, molto di più come diffusione) e nei ristoranti se non si è bimbo friendly bè si è proprio demodè:-).

 

Ritorniamo all’eglefino. Il povero pesce di solito, più o meno volentieri, si presta a finire nel fish&chips. Piuttosto che nel fish pie. Una preparazione, quest’ultima, che se fatta con tutti gli onori e alleggerita diventa un perfetto esempio british tradizionale della nuova tendenza. Non per nulla la ricetta l’ho trovata sia nel libro di ricette di Jamie Oliver (messo a disposizione da James, il nostro padrone di casa) sia in "The National Cookbook" di Oliver Peyton. Quest’ultimo è stata una scoperta. Ok, parte in vantaggio con la sottoscritta. Perché parla di cucina, la divide nelle quattro stagioni e ci mette dentro l’arte. E tutti quei quadri, vicino ai piatti, sono un’emozione.

Come scrive Peyton il Fish Pie è un piatto da tutti giorni, di quelli dove ci metti quello che hai. Chiaro, oggi può diventare un superpie se ci infili gamberoni, aragosta etc, ma visto che qui si parla di pupi (e i crostacei sono ancora banditi) meglio scegliere la semplice combinazione di patate e eglefino. Così british e così winter:-).

 

Tenete conto che ho cambiato solo poco, poco la ricetta di Peyton. Ho eliminato il vino e la salsa al prezzemolo, e ho voluto aggiungere nella copertura alla patata giusto un cucchiaio di farina e un pizzico di lievito, tanto per vedere se così si gonfiava un pochino in più. Il fish pie è formato 12 mesi per via di panna, burro e latte. Potete sottoporre anche a bebè più piccolo preparando la purea di patate con brodo di cottura e giusto un cucchiaino di olio. Il pesce l’ho passate in padella con un goccio sempre di olio e acqua di cottura delle patate.

 

piesse: dimenticavo, se visitate St. Paul di domenica ricordate che la chiesa è aperta, ma le gallerie sono chiuse così come la cupola, in compenso è sempre aperto il ristorante… nella cripta. ‘Sti inglesi sono stupefacenti.

Lo Ye Olde Cheshire Cheese è poco più in là, in Fleet Street e chiude, alla domenica, 2.30 p.m., sempre o’clock. Dopo il pranzo, prendetevela comoda e fate una camminata a piedi dal Millenium Bridge fino al Tower Bridge (seconda puntata).

 

Ingredienti

1 filetto di eglefino (o merluzzo o salmone)

5 patate 

1/2 porro

50 gr di burro

1/2 tazza di panna fresca
1 bicchiere di latte

2 cucchiai di farina

1/2 cucchiaino di lievito istantaneo (io ho usato la baking powder inglese)
lemongrass (o se non avete scorza di limone)

timo limonato (o normale)

sale (senza se il bebè è poco più di 12 mesi)

 

Procedimento

Pelate le patate e mettetele a cuocere in acqua. Una volta pronte schiacciatele, aggiungete il burro, la farina, la panna e un paio di cucchiai di latte. Dovete ottenere una specie di purè che finite con il cucchiaino di lievito. Prendete il filetto: fate cuocere giusto cinque minuti in padella con un cucchiaio di latte, i porri affettati, il timo e il lemongrass (o scorza di limone in mancanza). In una pirofila posizionate in fondo il pesce che si sarà un po’ sfaldato e coprite con la crema di patate. Mettete in forno a 180° per 20-30 minuti. Le patate sopra faranno una bella crosticina e si gonfieranno.

 

 

 

 

Crumble al rabarbaro: it’s 5.00 p.m.

E’ una delle prime cose che ho acquistato a Londra, insieme al lemongrass, la lavagnetta magica di Hamleys e il National Cookbook. Di sicuro è quello che mi ha dato grande soddisfazione. Della serie “lo voglio, lo trovo ed ha pure un prezzo ben al di sotto del mercato italico”. Cinque, dico cinque gambi (si dice così?) di rabarbari, color porporaviolaceo acceso, da utilizzare come frutta ma della famiglia "verdure".
E ho deciso che niente era più “british” di un crumble, soprattutto all’ora del tè.
Semplice, veloce e fatto di poche briciole: giusto fiocchi di avena e farina integrale (ne ho una quantità industriale, avanzata dalla pakkolla), scorza di arancia, poco, poco zucchero scuro e un tocco di burro. E il rabarbaro in tutto il suo splendore, cotto qualche minuto con due cucchiai di zucchero, mezzo bicchiere di latte e un cucchiaino (ce l’avevo e non ho resistito) di latte di cocco. 

Con gli scones e il pudding (ne parleremo) il crumble (di solito di mele) è uno dei pezzi forti per il tè delle cinque.
Il teatime per la sottoscritta rimane però ancora un miraggio (e difatti il mio crumble è stato il dolce della cena) che in settimana a quell’ora lavoro mentre la pupa saltella al nido e nel finesettimana è l’orario migliore per girare per musei e gallerie (bè per noi, visto che l’aliociotta è fuoriuso sul passeggino). Indi, mentre gli inglesi e sua maestà sorseggiano dell’ottimo Early Grey, Mr B. ed io siamo impegnati con mummie, fregi del Partenone di ellenica provenienza (‘sti inglesi sono pazzeschi!) e la decapitazione di Lady Jane Grey: lo so, quest’ultimo, a voi non dice nulla, ma a me è rimasto il ricordo di questo quadro da ragazzina al National, sì, sì più dei girasoli di Van Gogh, avevo una fervida fantasia allora.

Sarà ma Londra non ti mette per niente la voglia di fermarti, se poi considerate l’irrequietezza innata della sottoscritta le cose possono solo correre ancor di più.

Ecco quello che è stato il programma del nostro weekend, caso mai qualcuno fosse curioso e volesse trarre spunto per visite future:-).

11.00 a.m.: Cinderella al Lyric. Londra è la città dei musical, dei concerti e delle rappresentazioni shakespiriane. Bene, non solo. C’è una nutrita programmazione anche per i pupi, ma proprio pupi (diciamo dal formato aliciotta in poi).

13.00 p.m.: Portobello market. Mai visto tanta gente e tante chincaglierie insieme. Spostatevi verso Nottting Hill, dove il mercato si fa soprattutto gastronomico e afte tappa a Books for cooks (prometto di riparlarne che qui si fa lunga).

15.00 p.m.: lunga, lunga camminata e ecco che ci siamo spostati verso Chiantown, Soho, giro l’angolo, cammino, cammino.

16.00 p.m.: requiem pupi, il British. Stupefacente. Però i fregi del Partenone potrebbero ritornare a casa, casetta, no?

18.00 p.m.: chiamalo teatime, bè comunque crumble di mele nella cripta. Porzione devastante, la custurd cream contribuisce notevolmente a peggiorare le cose. Requiem della sottoscritta, resurrezione della pupa.
 

Dimenticavo la ricetta. Praticamente ve l’ho già cantata. Riepilogo, che qui si parla di cucina. Formato? Due anni soprattutto per via del rabarbaro (aspetto però conferma dalla pediatra del cucchiaino). Nel senso che se sostituite con le mele potete agevolmente impiattare per un dodici-diciotto.

Tagliate il rabarbaro a pezzetti (circa 5-6 gambi). Mettete in pentola con un cucchiaino di zucchero e latte (circa mezzo bicchiere). Girate fino a quando si ammorbidisce senza però sfaldarsi (basteranno cinque, otto minuti). Preparate le vostre briciole. Mischiate burro (circa 70 gr), fiocchi di avena e farina (circa 150 gr) e zucchero (50 gr). Se volete potete aggiungere scorza di arancia (io ci ho messo delle scorze caramellate) e granella di mandorle (io non l’avevo e ho lasciato perdere). Dovrete ricavare un impasto a briciole (usate, usate le dita). Mettete il rabarbaro nella pirofila e coprite con il crumble. Infornate per 20 minuti a 180° e servite caldo.

 

Il piatto del ringraziamento: mele, patate&pollo


Direi che oggi mi sono sintonizzata sull’orario di NY: ancora un po’ che aspettavo a fare il post il giorno del Thanksgiving era bello che andato. La ricetta, infatti, si ispira al piatto preferito dai padri pellegrini della Mayflower.

Sarebbe a dire il grosso tacchino che negli Stati Uniti, il quarto giovedì di novembre, si affrettano a imbottire di questo e di quello e servire con chutney varie.

Una vera e propria tradizione che è una corsa folle al tacchino, tanto da spingere persino ad un sondaggio per aiutare il presidente a scegliere quale povero malcapitato graziare quell’anno. Il fortunato di quest’anno pare essere certo Courage (a onor di cronaca): strani gli americani:-).

E questo piatto? Bè la sottoscritta non è di quelle che si appassionino alle tradizioni degli altri e a volte nemmeno alle proprie (ad esempio di panettone faccio fatica a consumarne uno in tutto il periodo natalizio). Per di più di carne ne cucino una volta sì e quattro no, però mi piaceva l’idea di mele, patate dolci e tanto per seguir la via, ma non troppo, pollo. In realtà la ricetta dei padri pellegrini prevedeva anche super "pumkin", la zucca: io l’ho esclusa che sono settimane che sia la cena sia la merenda la zucca è onnipresente. Eventualmente, se volete ricreare proprio l’atmosfera Mayflower a casa vostra, potete reinserirla con una chutney (zucca&senape?) per accompagnare.

Ne è nato un piatto perfetto per il formato bebè, dagli 8-9 mesi in poi: alla fine se il pupo non mastica ancora basta passare tutto e voilà, il gioco è fatto ed eventualmente preferire la cottura al vapore del tutto.
Il sapore dolce di mele e patate di sicuro ha la meglio sui più piccoli.
Evitate il cipollotto fino ai 9-10 mesi. 
piesse:  le patate dolci (dette anche americane, tanto per stare in tema) contengono ricche dosi di beta-carotene che per voi&pupo si trasformano in vitamina A. Se non siete di quelli che le frequentono, usatele, usatele, usatele che solo a tagliarle e disporle sul piatto non paiono pianeti strani?:-).

Ingredienti       

80 gr di filetto di pollo (scendete a 50 gr per i formati 9-10 mesi)

1/2 mela

1 patata americana

1 cipollotto

olio EVO    

1 foglia di alloro                                                       

Procedimento

Pelate mela e patata, tagliate a pezzetti insieme al pollo. Rosolate tutto in padella con il cipollotto a fettine, la foglia di alloro (che poi toglierete) e olio d’oliva. Bagnate con acqua tiepida e cuocete finchè gli ingredienti sono belli morbidi. Servite. Nella versione a vapore, mettete nel cestello pollo, mela e patata (senza buccia), nell’acqua la foglia di aloro. Quando tutto è pronto frullate con qualche cucchiaino dell’acqua di cottura.

 

 

Uovo alla “kok”o coque: 3 minuti

Per anni non ho amato affatto quell’uovo poco cotto, con quel tuorlo liquido e il bianco, bè, un po’ viscido. Lo so, per alcuni l’uovo alla coque è un’esperienza di sublime naturalezza. Per me lo è diventata. Per Alice, inaspettatamente, lo è già. E da un bel pezzo.

 

Poi sono arrivate le variazioni, l’ultima in ordine di tempo al forno (ne parleremo), ma quello alla coque, un po’ Francia, pare essere per lei un’esperienza se non mistica direi quasi. Dopotutto persino per Dante l’uovo era il miglior cibo al mondo, se poi ci si spruzzava un pochetto di sale ancor meglio.  

Tra l’altro l’appuntamento fra i due è puntuale e settimanale, perché da adepta ha trovato anche chi può approviggiornarla dei prodotti migliori. Ogni domenica mattina, insieme al corriere, la sottoscritta trova due uova, fresche, fresche, di pollaio che una simpatica vecchietta, nostra vicina, si procura da quella che lei chiama “la contadina”. E visto che sanno ancora di pollaio capita che finiscano alla coque, magari per un brunch improvvisato.

In attesa di assaggiare le bianche di Parisi (rigorosamente di galline livornesi), per l’aliciotta queste sono le migliori.

E il formato bebè? 9-10 mesi per il tuorlo (a piccoli assaggi) e 12 per l’albume per via di possibili allergie. Dopo l’anno potete agevolare l’assaggio anche 2 volte la settimana se il soggetto pare essere della scuola dell’aliciotta, dopotutto sono un concentrato facilmente digeribile di sali minerali, proteine, e vitamine. Se vi riesce preferite uova bio, di allevamento a terra.

Piesse. Per chi avesse dei dubbi sull’uovo alla coque, che sì semplice è semplice, ma vedi mai che come la sottoscritta vi dimenticate i tempi. A casa nostra è Mr B. l’esperto in materia: 3 minuti per l’uovo alla coque, 8 per l’uovo sodo.

Leggete qui e fidatevi che chi scrive non è la sottoscritta.

“L’uovo deve essere freschissimo: non superi i tre giorni di vita. E prima d’esser immerso nell’acqua della cottura, il guscio sia coscienziosamente lavato d’ogni impurità. La casseruola sia grande, l’acqua abbondante, calcolatene 250 gr. per ogni uovo. I metodi di cottura sono numerosi e possono tutti dare risultati buoni. Il più semplice consiste nell’immergere le uova nell’acqua bollente appena tolta dal fuoco. Rimettere la casseruola sul fuoco, col coperchio, e contare tre minuti di cottura dal momento che riprende l’ebollizione. Un sistema più lungo ma infinitamente migliore, è di far bollire le uova un solo minuto, lasciandole poi per cinque minuti nella loro acqua via dal fuoco. Il perfetto uovo alla Coque deve risultare liscio e spesso come una crema, tutto omogeneo e distaccato dal guscio e il rosso deve essere della stessa temperatura del bianco; tenete in acqua tiepida fino al momento di portare in tavola. Ottimo è l’uso della clessidra, per una misurazione esatta del tempo di cottura”

 Da “La cucina elegante ovvero il Quattrova illustrato” (Editoriale Domus, 1931) di E.V. Quattrova