Scones al cheddar: so british

Ho passato il weekend in viaggio. Naturalmente Londra- Milano dura un attimo ma ho continuato a sentirmi sospesa da venerdì (giorno prima della partenza) a domenica (giorno dopo l’arrivo). Sarà la casa con quel parquet scricchiolante che ancora mi pare di sentire, saranno quelle valigie con ben 11 chili di extra che Mr B., vista la grazia che ci ha fatto un non inglese all’aeroporto, 

mi ha perdonato con una risata quando dall’ultimo  trolley ci ha estratto pure un chilo di pastinache (“e queste che cavolo sono?”). Sarà tutta quella Londra che ancora sento addosso. Poi oggi è cambiato tutto: è lunedì, è marzo e qui c’è il sole, ma proprio sole, pieno e sfacciato.

La cucina a casa non ha ancora riaperto, in compenso venerdì, munite di doppio forno londinese, con Alice abbiamo sperimentato la versione salata degli scones.

Perché insistere vi chiederete? Innanzitutto sono tipo maniacale, di quelli che scoperta una cosa (sia uno scrittore sia un regista sia una tipologia british di radici) poi devono immancabilmente sperimentare la serie. Secondariamente, fatto da non sottovalutare, nel frigorifero giaceva una fetta di cheddar di Neal’s Yard (vi ricordate del Borough Market) da far fuori.

Ecco il cheddar  è uno dei pochi e rari formaggi che parlano inglese. Provate a pensare a qualcosa di profondamente e banalmente british. I bus a due piani, rossi. I cab neri (mi spiegate perché gli inglesi sono riusciti a conservare dei taxi che ti viene voglia di salire ogni volta che ne vedi uno?). Il Big Ben uno pari con il Tower Bridge e ormai pure con il London Eye.

Gli scoiattoli di St. James Park e i cigni di Hyde Park. L’Alicetta in cabina rossa (ok questo per la sottoscritta). Sorry, please e grazie, thank you. La pioggia.

 

L’ora del tè e Mind the gap. Il pudding, i pies. E gli scones.

Tenete conto che, come la versione dolce, lo scone si presta al formato 12 mesi, perfetto come pseudo panino morbido da mordere. La mia modifica? Abbassato la dose british di burro e lavorato con qualche cucchiaio di buttermiclh. E profumato con timo.

Naturalmente lo scone salato si presta ad innumerevoli variazione: potete sostituire il cheddar con parmigiano piuttosto che formaggio tipo Emmental o latteria poco stagionato (per bebè sui 12 mesi), o introdurci delle verdure cotte (patate, zucchine ad esempio).

piesse: ancora per qualche giorno il cucchiaino sarà in versione british, non fosse altro per farvi vedere come utilizzo il chilo di pastinache in formato inizio svezzamento

 

Ingredienti

200 farina

50 gr di burro

2 uova

60 gr di cheddar grattuggiato

timo

1 bicchiere di buttermilch (o latte e yogurt), q.b. per lavorare l’impasto

1 cucchiaino abbondante di baking powder (o mezza bustina di lievito istantaneo)

Procedimento

Simile, simile a quello degli scones dolci (anche se dovete ricavare dei panetti più bassi). Impastare farina (nella quale avete stemperato il lievito) e burro con le dita, mescolare il formaggio grattuggiato, un pizzico di sale e il timo. Aggiungere le uova sbattute (lasciate un paio di cucchiai per spennellare). Aiutarsi con il buttermilch per lavorare l’impasto. Dovete ottenere una consistenza morbida ma che possa agevolmente essere stesa per poi ritagliare i tondi.

Su carta da forno ricavate delle forme tonde non troppo alte (circa 1 cm), spennellate e passate a 180° per 10-15 minuti. Potete mangiarli caldi, caldi vuoti oppure anche tagliare e imbottire con prosciutto, salmone affumicato (sopra i 24 mesi) o del formaggio fresco. 

 

 

Kent: cervi e pudding patriottico

Charing Cross – London Bridge – Waterloo… una manciata di fermate e in poco meno di mezz’ora si lascia la metropoli e si entra nella Greater London verso la campagna. Chilometri che secoli fa impegnavano i pellegrini di Chaucer giorni e giorni.

E che ora lasciano stupita la sottoscritta, catapultata nel weekend in uno scenario che pare lontano, lontanissimo.
La campagna qui in Inghilterra ha questo strano potere che non ha ad esempio la zona circostante Milano, per intenderci. E’ come quando a Londra entri in uno dei parchi e vedi cigni e scoiattoli ma all’ennesima potenza. Lo stacco è netto e ha la capacità di farti sentire e vivere qualcosa di completamente diverso.

Metteteci poi la fortuna sfacciata di essere accompagnati da una collega di Mr B. su e giù per il Kent con fermata in uno di qui castelli ereditati da Enrico VIII e dotato di parco vastissimo con cerbiatti liberi. Le origini per metà italiane della nostra guida hanno fatto il resto, nel senso che il pranzo è stato gentilmente offerto a casa sua dalla cucina di mamma&papà.

 

L’idea iniziale era di di spingersi fino a Leeds Castle, decantato da ogni guida oppure ad Hever Castle (qui ci ha abitato Anna Bolena da bambina).
Vedi impazienza dell’aliciotta e chiusure dovute al winter time, ci siamo fermati prima. E abbiamo fatto bene. Perché Knole è esattamente il posto che cercavo. Niente a che vedere con l’eleganza di Hampton Court o il "so da fiaba" di Leeds. In compenso spazi enormi, colline appena accennate, querce secolari e decine, decine di cerbiatti liberi tra i quali camminare.
Pare che il posto, oltre alla sottoscritta e a qualche altro, fosse piaciuto parecchio anche al solito Enrico VIII: l’arcivescovo di Canterbury fu gentilmente sollecitato a cedergli la proprietà (penso tra l’altro l’abbia fatto in tutta fretta caso mai finisse come la povera Bolena).


Credo sia un piccolo concentrato del Kent e della campagna inglese: verde, verde, cielo sempre indeciso, dal grigio all’azzurro intenso, e animali liberi quasi da toccare. Ed è straordinario come qui siano in grado di conservare, tutelare, vivere e far vivere tutto questo. Altro che zoo (non nutro simpatia per il soggetto).

Diciamo che qui la formula campagna nel weekend è giusto una bella passeggiata all’aria aperta, stivali di gomma ai piedi, due o tre bimbi dietro, e magari un giro a cavallo (intendiamoci per nulla elitario o costoso come può essere dalle nostre parti). Caccia? Niente, che ormai è vietata.

Confesso che era difficile dire chi tra Alice e la sottoscritta fosse più soddisfatta dell’incontro coi cerbiatti (e un cervo), di sicuro la pupa ha riscosso più successo considerato che tra me, la mia Canon e loro è sempre rimasta una distanza minima di tre metri mentre la piccoletta è stata avvicinata a "portata di carezza". E credo che per la pupa sia stata un’esperienza da ricordare:-).

Nel Kent poi è un susseguirsi di colline, dolci, dolci, piantagioni di lavanda (sì proprio lavanda come ha raccontato la nostra guida), cottage stile tudor, fattorie, cavalli e buffe case dal tetto conico dove si conserva il luppolo per la fabbricazione della birra. 

Date colpa alla campagna e soprattutto a questa atmosfera "tempo che fu", oggi ho preso in mano un altro dei libri di Mr James. Si parla di cucina british, ma proprio british  nel senso patriottico del termine. Non per nulla il titolo "The Victory Cookbook" di un’istituzione nazionale, Maguerite Pattern (la donna aveva persino lavorato per il Ministero dell’alimentazione durante il conflitto).

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, la Gran Bretagna diede vita a tutta una serie di celebrazioni per la vittoria. E questo me lo potevo pure immaginare. Che invece assolutamente non sapevo è che la cucina fece la sua parte. E anche i bambini. Si organizzarono per giorni e giorni tavolate per le strade ( e devo ancora capire come si regolarono con il loro tempo così variabile) e i pupi si vestivano di festa e si davano a jelli, blancmange e pudding, a volte preparati con pochi e poveri ingredienti (ad esempio latte in polvere o uova condensate piuttosto che strutto o margarina invece del burro).

Il cucchiaino ha pensato bene di cimentarsi con il pudding patriottico, giusto farina, zucchero, un uovo, burro, due cucchiaiate di latte, qualche cucchiaio di "marmelade" (indi, tassativamente all’arancia), lievito. 

Tenete conto che il formato è bebè dopo l’anno, la consistenza è veramente morbida e da facile, facile "morso" e la tradizione inglese prevederebbe "custard cream" per accompagnare ( una sorta di crema inglese che defnire di facile digestione bè è più che un eufemismo).

piesse: la cosa che preferisco di questo pudding è la cottura, niente forno ma semplice bollitura.

Ingredienti secondo la ricetta di Mrs Pattern

200 gr di farina

1 uovo

40 di zucchero scuro

50 gr di burro

4 cucchiai di marmelade (o golden syrup o lemon curd)

1 cucchiaino di baking powder (o mezza bustina di lievito)

2-3 cucchiai di latte o acqua

 

Procedimento

Mischiate farina, zucchero, lievito e burro. Aggiungete l’uovo sbattuto e il latte. Dovete ottenere una consistenza cremosa. Amalgamate la marmellata o altro. Ora viene il divertente. Mettete in una ciotola leggermente infarinata (tenete conto che andrà ad alte temperature!), coprite con carta  (tipo domopack o carta da forno) e legate il tutto. Posizionate in pentola con acqua, portate ad ebollizione poi abbassate (e lasciate ancora per 20 minuti).

Mrs Pattern consiglia, se ne avete a disposizione, di mettere sulla base mele a fettine e of course servire con custard cream (siate parchi e non fate come gli inglesi!).

Scones per il tè dei matti

Sotto un albero di rimpetto alla casa c’era una tavola apparecchiata. Vi prendevano il tè la Lepre di Marzo e il Cappellaio. Un Ghiro profondamente addormentato stava fra di loro, ed essi se ne servivano come se fosse stato un guanciale…

La tavola era vasta, ma i tre stavano stretti tutti in un angolo: — Non c’è posto! Non c’è posto! — gridarono, vedendo Alice avvicinarsi. — C’è tanto posto! — disse Alice sdegnata, e si sdraiò in una gran poltrona".

Se penso ad un tè inglese chissà perché vado dritta al tè dei matti. Sarà che Biancoconiglio, il Cappellaio Matto, la Lepre di Marzo e il Ghiro guanciale non sono compagnia da tutte le tavole. Sarà che sono un po’ matta pure io e il tè senza regole, con tanto di personaggi ai quali manca qualche venerdì, bè proprio mi piace. Sarà che ho un’Alice tutta mia, pure lei matta giusto quel pochino per farmi sorridere. 

Ed invece non c’è nulla di più rigoroso e rituale della preparazione del tè, soprattutto se si considera che è diffusa in maniera diversa in culture lontane fra loro. Cina, Giappone, India, Corea, Olanda, Svezia e of course Gran Bretagna. 

Certo il tea time delle 5 o’ clock non ha la grazia del Cha No Yu giapponese e oserei dire nemmeno la leggerezza. Però è una sicurezza che ti mette tranquillità come tutto ciò che ha la capacità di non cambiare mai,  ma proprio mai.

 

Qui a Londra non ho avuto il piacere di partecipare ad un tè da "Alice Woderland" che sarebbe stato proprio divertente. Ho trovato in Covent Garden una valida alternativa ai soliti indirizzi (per intenderci Whittard o Twinings o Fortnum&Mason) per acquistare tè: il posto si chiama Tea Palace e vale la visita.

 


Poi lunedì, giornata piovosa e grigia ( e ve lo devo dire?), alle 4.15 p.m., approfittando di un ritorno di Mr B. inaspettato, abbiamo avuto la grazia di gustare il nostro primo tea time british. 

Ok, ho cercato per un paio di giorni una tearoom di una simpatica signora dello SryLanka: volevo qualcosa di alternativo al tea time modello Ritz o quasi. Invano, ha chiuso qualche mese fa. Abbiamo ripiegato sull’Orangerie, just around the corner, proprio accanto a Kensington Palace. Se non avesse piovuto, se non fosse stato così grigio, e se qui il sole non calasse dopo le 4, bè avrebbe potuto essere carino: dalle alte finestre bianche si ha la vista diretta su tutti i gardens.

Abbiamo avuto il nostro tè: sandwiches, very small, assaggi di cakes, niente di che, e scones, con jam e clotted cream. Sì perchè il tè inglese, di solito nero, va servito con questa sorta di panini dolci da riempire con marmellata (spesso di fragole) e clotted cream (una crema a base di mascarpone, panna e qualche goccia di limone), deliziosa.

 

Poi c’è stato il dopo. Ossia i miei scones home made. Rispetto a quelli assaggiati fuori sono risultati meno panosi e più biscottosi (ma comunque molto morbidi), secondo alcuni, di parte, migliori:-). 

La sottoscritta non ha resistito e fra uno scatto e l’altro ne ha subito, subito mangiato uno con marmellata di rabarbaro (quella alle fragole non l’ho mai, ma proprio mai amata) e clotted cream (a questa proprio non resisto). Consiglio di fare lo stesso perché caldi sono tanto più "goduriosi":-).

 

Li ho trovati niente male anche come idea da importare in versione baby sia come merenda alla moda british sia come panino del mattino. Il formato è dai 12 mesi in poi, naturalmente, potete fare a meno dell’uvetta se il pupo non gradisce.

Chiaramente (qualcuno aveva dubbi?) ho apportato la mia piccola modifica e invece di usare tanto burro ho sostituito il latte con del buttermilch, semplice, semplice da reperire qui.

piesse: prometto prossima puntata su tè e infusi per bebè, datemi tempo di ritornare a casetta:-) 

 

Ingredienti

300 gr di farina

150 ml di buttermilch (potete usare latte e yogurt al posto del latticello)

50 gr di burro

1 uovo per spennellare

20 gr di zucchero
uvetta (se volete)

1 cucchiaino di baking powder o 1/2 bustina di lievito 

 

Procedimento

Facile e veloce. Mischiate farina e zucchero, aggiungete il burro e lavorate a manina. Versate il buttermilch ( regolatevi un po’ sull’impasto che non deve essere troppo bagnato). Aggiungete l’uvetta, finite col lievito. Stendete l’impasto (in mancanza di mattarello fate come me, l’ho spiattellato a mano), tagliate con formina o al coltello  (indovinate che ho fatto io?). Posizionate su carta da forno e passate al calduccio a 180° per 15 minuti. Se possibile mangiate subito, subitissimo.

Biscotti di riso soffiato: Alice’s baking

Non ho grande passione per l’inizio settimana. Però siamo a Londra e dopotutto devo sfruttare i due forni di cui è dotata questa cucina, senza pentole e tegami. E poi c’è Alice rimasta imbrigliata nel sistema prescolastico inglese che prevede a febbraio una settimana di half term. Niente di più facile per consumare il tempo di impasti e biscottamenti. 

La pupa ci si tuffa felice e contenta, aggiunge, aggiusta, assaggia e riassaggia.
Pretende ad ogni attimo di dosare il baking powder e riassaggia. La sottoscritta tenta, invano, di regolare e consigliare, di parare i colpi sull’obiettivo nuovo, nuovo e di salvare un minimo impasto (personalmente preferisco la versione dopocottura). Fortuna che la ricetta è di quelle semplici, a prova di pupo. Nel senso che quando hai in mano pochi ingredienti, niente da sbattere o frullare, puoi pensare di ottenere un risultato mangiabile anche con la pupa che pare essere uscita da uno di quei programmi di cucina di Gordon Ramsay (della serie fast and furious).

A Londra poi cucinare con i bebè sembra essere “so fashion”. Non c’è scuola, corso, club e pure supermercato (da Wholefoods c’è la kidsection il lunedì) che non abbia il suo angolo di “kidscooking”. E non c’è libreria dove non ci sia una bella sezione con le ultime novità “su cosa, come e quando cucinare con il bebè”. Come dire altro che cucchiaino.
L’idea è di sviluppare regimi alimentari sani creando consapevolezza fin da piccoli su ciò che si cucina e si mangia. Devo confessare che mi ha stupito quanto tutto questo sia diffuso proprio nel paese dell’English breakfast e gravy a gogo. O forse è proprio questa la ragione, voi che dite?
Pensate che un paio di anni fa il governo ha promosso una campagna di insegnamento obbligatorio nelle scuole di cucina, giusto insieme a matematica e abc francese.
Un vero e proprio piano di combattimento contro la diffusione sempre maggiore di obesità infantile che ha avuto nel Jamie nazionale il suo Ministry of Food. Nel senso che quest’ultimo si è lanciato nella rivoluzione dei costumi gastronomici, al grido rivoluzionario “Tutti possono imparare a cucinare” (non vi ricorda un po’ un certo topo in quel di Parigi?).

Certo, e che velo dico proprio io, questa pratica mi piace mucho. Tanto che uno dei prossimi lunedì pure l’aliociotta parteciperà alla sessione di cooking al nido ( e ci andrà pure io che voglio vedere!), caso mai le lezioni di mamma non fossero sufficienti:-).

Nel frattempo vi suggerisco questi link, uno dei quali è il sito di Annabel Karamel (grazie Smamma!), una vera istituzione in Gran Bretagna. date un’occhiata al sito e ditemi se sembra una bibbia di cucina per bambini (of course in Bristish style). 
www.annabelkarmel.com

www.thekidscookeryschool.co.uk/
www.letsgetcooking.org.uk/Home
www.guardian.co.uk/education/2008/jan/22/schools.uk1

 

Per tornar alla ricetta siamo ancora in territorio britannico e dintorni. Si tratta di biscotti di riso soffiato, divertenti da preparare ( dalla faccia dell’aliciotta) e da mangiare (parola di Mr B. che ha sgranocchiato dopo il ritorno dalle nebbie inglesi). Tre biscotti (dico tre) hanno subito la variante alice, ossia la sottoscritta per sedare la furia, ops per agevolare lo chef da furba souschef ha suggerito di creare biscotto sorpresa per papà. E così lo chef ha introdotto poco gentilmente, spiaccicando con le manine, il chicco di caffè cioccolatoso.

Tenete conto che il biscotto di riso soffiato è da sottoporre a formato dopo i 12 mesi.

Ingredienti

150 gr di farina
1 tazza di riso soffiato
1 uovo
50 gr di burro
50 gr di zucchero grezzo (o bianco)

scorza di limone bio
2 cucchiai di latte
1 cucchiaino di baking powder

 

Procedimento

Non ho seguito il procedimento tradizionale che prevede di preparare l’impasto e passarlo poi nel riso soffiato (indovinate perché?). Vi dico come li abbiamo fatti. Mischiato burro e zucchero fino ad ottenere una crema morbida. Aggiunto l’uovo e la scorza di limone. E subito veloce la farina per fermare il continuo assaggio. Risultava non troppo morbido e ho unito due cucchiai di latte (che potete evitare e aumentare di 20 gr il burro). A pioggia il riso soffiato. E girato, girato. Il lievito: in tante ricette non è presente ma desideravo si alzassero un pochino e quindi ci ho messo un cucchiaino di baking powder (se volete fare lo stesso usate un pizzico di lievito per dolci italiano).

Mr Fish Pie: eglefino 1.

 

E’ un po’ come il pudding o l’English breakfast. O il teatime con scones e jam. Perfettamente british, tradizionalmente british. Come la cupola della cattedrale di St. Paul, "da conservare ad ogni costo", ripeteva ogni giorno Churchill. E la chiesa è ancora lì. Pochi passi più in là, in quella che era la via della stampa, piccola svolta a destra e si torna giusto indietro di 400 anni per il pranzo.

Of course, allo Ye Olde Cheshire Cheese puoi scegliere, magari seduto al posto preferito del dr. Samuel Johnson, la ale che fa per te: bitter, mild o lager. Da accompagnare con un pie, magari di fish, o un roast abbondantemente accompagnato da gravy (per la sottoscritta sempre troppo).

O fish and chips, che più british non si può.

E’ affascinante come in cucina possano convivere e rinascere e risorgere (aggiungerei io) ingredienti inflazionati e bistrattati per tanto tempo. Prendete l’haddock o eglefino. Il nome, nella sua traduzione italiana, mi ha subito colpito: pare un incrocio fra un folletto e un pesce. L’idea di cucinarlo in qualche maniera è stata immediata. Ho adocchiato un Fish shop mentre arrancavo in salita verso il nido della pupa. E sulla via del ritorno ho fatto l’acquisto con tanto di lemongrass as a present (bè a dir la verità con quello che costava il pesce niente era regalato). 

Tornata a casa ho fotografato e studiato.

Lo so, la cucina inglese in tanti evoca brutti ricordi. Anche nella sottoscritta. Nel mio viaggio studio a Londra, circa un secolo fa, venivo dotata ogni giorno di sandwiches a base di non so più che con un ingrediente che non mancava mai: circa un panetto di margarina (che non ho mai, ma proprio mai sopportato). E poi il gravy, intongoli che bagnavano, affogavano e suicidavano ogni tipo di preparazione. Infine fish&chips a base del pesce peggiore fritto e rifritto. 

Qualcosa in realtà sta cambiando, se non è già cambiato nella cucina anglosassone. Sono arrivati gli chef della nuova generazione ad alleggerire, rinnovare ed educare. Certo perché di educazione alimentare qui si parla fin dalla scuola: si sono sviluppati nuovi menù per le mense scolastiche, si organizzano corsi di cucina per bambini ( e ve ne parlerò, giurin giuretta), ci sono siti dove si parla solo ed esclusivamente di cucina dallo svezzamento in poi (diciamo come il cucchiaino ma molto, molto di più come diffusione) e nei ristoranti se non si è bimbo friendly bè si è proprio demodè:-).

 

Ritorniamo all’eglefino. Il povero pesce di solito, più o meno volentieri, si presta a finire nel fish&chips. Piuttosto che nel fish pie. Una preparazione, quest’ultima, che se fatta con tutti gli onori e alleggerita diventa un perfetto esempio british tradizionale della nuova tendenza. Non per nulla la ricetta l’ho trovata sia nel libro di ricette di Jamie Oliver (messo a disposizione da James, il nostro padrone di casa) sia in "The National Cookbook" di Oliver Peyton. Quest’ultimo è stata una scoperta. Ok, parte in vantaggio con la sottoscritta. Perché parla di cucina, la divide nelle quattro stagioni e ci mette dentro l’arte. E tutti quei quadri, vicino ai piatti, sono un’emozione.

Come scrive Peyton il Fish Pie è un piatto da tutti giorni, di quelli dove ci metti quello che hai. Chiaro, oggi può diventare un superpie se ci infili gamberoni, aragosta etc, ma visto che qui si parla di pupi (e i crostacei sono ancora banditi) meglio scegliere la semplice combinazione di patate e eglefino. Così british e così winter:-).

 

Tenete conto che ho cambiato solo poco, poco la ricetta di Peyton. Ho eliminato il vino e la salsa al prezzemolo, e ho voluto aggiungere nella copertura alla patata giusto un cucchiaio di farina e un pizzico di lievito, tanto per vedere se così si gonfiava un pochino in più. Il fish pie è formato 12 mesi per via di panna, burro e latte. Potete sottoporre anche a bebè più piccolo preparando la purea di patate con brodo di cottura e giusto un cucchiaino di olio. Il pesce l’ho passate in padella con un goccio sempre di olio e acqua di cottura delle patate.

 

piesse: dimenticavo, se visitate St. Paul di domenica ricordate che la chiesa è aperta, ma le gallerie sono chiuse così come la cupola, in compenso è sempre aperto il ristorante… nella cripta. ‘Sti inglesi sono stupefacenti.

Lo Ye Olde Cheshire Cheese è poco più in là, in Fleet Street e chiude, alla domenica, 2.30 p.m., sempre o’clock. Dopo il pranzo, prendetevela comoda e fate una camminata a piedi dal Millenium Bridge fino al Tower Bridge (seconda puntata).

 

Ingredienti

1 filetto di eglefino (o merluzzo o salmone)

5 patate 

1/2 porro

50 gr di burro

1/2 tazza di panna fresca
1 bicchiere di latte

2 cucchiai di farina

1/2 cucchiaino di lievito istantaneo (io ho usato la baking powder inglese)
lemongrass (o se non avete scorza di limone)

timo limonato (o normale)

sale (senza se il bebè è poco più di 12 mesi)

 

Procedimento

Pelate le patate e mettetele a cuocere in acqua. Una volta pronte schiacciatele, aggiungete il burro, la farina, la panna e un paio di cucchiai di latte. Dovete ottenere una specie di purè che finite con il cucchiaino di lievito. Prendete il filetto: fate cuocere giusto cinque minuti in padella con un cucchiaio di latte, i porri affettati, il timo e il lemongrass (o scorza di limone in mancanza). In una pirofila posizionate in fondo il pesce che si sarà un po’ sfaldato e coprite con la crema di patate. Mettete in forno a 180° per 20-30 minuti. Le patate sopra faranno una bella crosticina e si gonfieranno.

 

 

 

 

Topinambur e dinosauri

 

Manca il sole. Sapete no di quella presenza che più sovente a Palermo ma di tanto in tanto anche a Milano decide di stanziare per un’intera giornata nello stesso luogo? Bene a Londra fa capolino, ma proprio capolino tra innumerevoli nuvole e dura un… respiro. Giusto il tempo "Vai che ora riesco a fare due scatti senza cercare la luce che non c’è" e quello è già bello che andato. 

Indi, facile, ma proprio facile capire che la pasta di cui sopra appartiene ad altri lidi.

Perché mai è qui, allora? Bè perché volevo (anzi volevamo che l’aliciotta ha avuto modo di divertirsi) parlare di dinosauri e della ragazza dei suddetti animali. Tale Mary Anning. E quindi niente di più semplice che estrarre dal repertorio cucchiaino un ingredienti di cui sapete già vita, proprietà e beltà: ecco qui. Archiviata la ricetta (don’t worry, il procedimento lo trovate sotto), veloce, veloce giro al museo di Storia Naturale londinese.

Noi ci siamo stati domenica: tranquilla passeggiata attraverso Kensington gardens, avvistamento cani, ancora cani, corridori del weekend superprofessional e passeggini, tanti passeggini. Al museo, chiaro siamo a Londra, tutto è super organizzato: per la serie se hai tre figli, magari quattro e  un cane noi ti aiutiamo e la tua visita sarà un gioco da ragazzi. Basta che segui le code, non corri eccessivamente e rispetti le indicazioni sui tempi di osservazione dei dinosauri. 

Poi ho visto Mary Anning. Bè non lei in carne ed ossa, poverina, ma la sua foto e la didascalia in bella vista a ricordare che una donna, inglese, di umili origini, colpita da un fulmine da pupetta (non so perché ma questa cosa mi ha riempita di ammirazione, quasi fosse una benedizione divina) era stata la prima a scoprire nel Sussex fossili, ossa, etc, etc… Altro che Darwin e legioni di speleologhi. Women make it better:-).

Piesse: Mary è stata giusto protagonista dell’ultimo romanzo di Tracy Chevalier (Strane creature). Lo ammetto io mi ero fermata alla "Ragazza con l’orecchino di perla" ma dopo aver scoperto la ragazza colpita dal fulmine e scopritrice di dinosauri, tento il bis.

Ripiesse: of course se siete a Londra e avete bambini fate una capatina a vedere i dinosauri, super!

Dimenticavo la ricetta (che dopotutto siamo qui a parlare di cucina).

Il formato bebè è dai 12 mesi in poi, anche se potete sottoporre prima eliminando prezzemolo e scorza di limone, e preferendo una pasta baby.

Et voilà: cuocere al vapore i topinambur. Passarli con qualche cucchiaino di acqua di cottura, un cucchiaino di olio EVO e poco, poco aglio. Lessare la pasta (io ho usato dei tubicini attorcigliati) e condire con la salsa ai topinambur, scorza di limone bio e profumate con prezzemolo fresco.